Lo Sgarbi che non ti aspetti lo trovi a via Vittorio Veneto. La sala tutta broccati e velluti di un elegante albergo romano ospita la presentazione del libro Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri (Bompiani). La folla è quella delle grandi occasioni e i relatori di tutto prestigio. Sgarbi, però -pur non lasciandosi sfuggire la polemica: «Nella battaglia contro le pale eoliche voglio stanare il preside Napolitano che non può indignarsi per Pompei e tacere su questo stupro del paesaggio» - rinuncia al ruolo di protagonista assoluto per concedere i riflettori al «venerato maestro». Quel Roberto Longhi che oggi è assurto al rango di mito della cultura italiana del ’900. E il primo applauso per questo deferente omaggio Sgarbi lo riceve da Antonio Paolucci che tra i tanti titoli di merito (già sovrintendente e ministro, e ora direttore dei Musei Vaticani) vanta anche quello di essere stato l’ultimo laureato del Longhi. Il critico d’arte che si difendeva da tutto e da tutti con il suo cattivo carattere e con quelle freddure e calambour che l’hanno reso celebre. È lo scrittore Antonio Debenedetti a ricordare la spigolosa timidezza di Longhi e la sua intelligenza linguistica. E gli viene facile il confronto con la perizia di Sgarbi nel confezionare un racconto del quale colpisce soprattutto il fascino della parola. Gli fa eco lo stesso Paolucci che ricorda come con Vittorio Sgarbi le affinità sono innumerevoli e la prima è senza dubbio la cieca fiducia nella massima oraziana fatta propria da Longhi: ut pictura poesis. «Se questa equivalenza ha fondamento - spiega il direttore dei Musei Vaticani - allora la parola del critico deve essere invasiva, pervasiva e mimetica». E l’ultimo libro di Sgarbi (che segue a un anno di distanza il fortunato L’Italia delle meraviglie: una cartografia del cuore) mostra esattamente come il viaggio sgarbiano è appunto, secondo Paolucci, un percorso «emozionale ma soprattutto pittorico». I precedenti sono illustri: da Montaigne a Goethe, da Ruskin a Brandi. Il viaggio nel nostro Paese permette di capire soprattutto una cosa: i musei «nascondono» solo una minima parte dei nostri tesori. «Sono quasi tutti fuori dalle pinacoteche - ricorda Paolucci - e dimostrano tutta la loro relatività, ossia l’essere strettamente legate al paesaggio e all’identità nazionale». Dalla Bolzano di Piacentini, alla Ragusa di Cambellotti, passando per il Rubens di Fermo e per il Valadier di Treia (Macerata), il Belpaese di Paolucci e Sgarbi è un caleidoscopio infinito di tesori tutti da riscoprire. Armando Torno si inserisce nella dotta disputa per buttare lì con disinvoltura una citazione encomiastica: «Davanti al quadro Longhi diventa ventriloquo». E Sgarbi si ricorda che deve dire di sé partendo dal maestro. «Il critico deve far parlare i quadri con perizia e i critici di oggi spesso non lo fanno». E il perché è presto detto. Non c’è amore nella loro osservazione ma il loro occhio è velato dal filtro di un’ideologia preconcetta. E ricorda il caso del Caravaggio oscurato per secoli proprio a causa di una lettura ideologica. «Fu Longhi a recuperarlo».
«Quel Caravaggio - scherza Sgarbi - che proprio come Bossi è cresciuto in Lombardia ma è a Roma che è diventato famoso».Oggi si replica. Sgarbi presenterà il libro insieme a Gillo Dorfles, Luca Doninelli e Giorgio Albertazzi a Milano (alle 18 allo spazio Krizia di via Manin 21)
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