
Valéry Larbaud e Léon-Paul Fargue avevano molte cose in comune: ancora ottocenteschi nell'abito e nel portamento, essendo nati nella seconda metà di quel secolo, incarnavano, ciascuno a suo modo, una certa idea di modernità novecentesca dove surrealismo e cosmopolitismo, ovvero una cultura di dimensioni europee, si mischiavano all'argot e alla sperimentazione letteraria. Si erano conosciuti poco più che ventenni, al funerale di Charles-Louis Philippe, l'autore di Bubu di Montparnasse, e da allora non si erano più lasciati: giornalisti e poeti, fondarono e diressero insieme una rivista, Commerce, in cui pubblicarono Joyce e Eliot, Rilke e Ungaretti. A unirli, oltre a una certa rassomiglianza fisica, entrambi calvi e atticciati dopo una giovinezza crinuta e bohémienne, e la comune passione per la letteratura come per la pittura e la fotografia, c'era però un elemento più impalpabile, anche se non per questo indefinibile, ovvero Parigi, una città e insieme la summa di ogni città, capitale universale delle arti e quindi mito.
Per una felice coincidenza, Fargue e Larbaud escono ora in contemporanea per due editori italiani, Robin e Aragno: è del primo Il pedone di Parigi (a cura di Emanuela Schiano di Pepe, pagg. 182, euro 16); del secondo, Giallo azzurro bianco (a cura di Vito Sorbello, pagg. 284, euro 28). In entrambi i testi, quella passione per Parigi appena sopra evocata, la fa un po' da padrone e se nel volume di Fargue è già nel titolo, nel più composito libro di Larbaud fa da apertura, «Parigi di Francia» si chiama il primo capitolo, e da chiusura, la deliziosa e poetica «Rue Soufflot»: «Resterai sempre qui/sempre abitando nella città dell'infanzia e del primo amore»... Vale la pena andare un po' più a fondo.
La seconda metà dell'Ottocento aveva modificato il volto della capitale e la Parigi dell'impero di Napoleone III aveva in fondo poco a che spartire con quella della Rivoluzione e dell'impero di Napoleone I, «il grande», rispetto al «piccolo», ovvero al nipote che aveva cercato invano di ripercorrerne le gesta. Se a quest'ultimo si dovevano gli sventramenti haussmanniani che avevano dato vita ai grands boulevards, la sua eredità finale era stata però l'umiliazione nazionale di Sedan a opera dei prussiani e il carnaio della Comune di Parigi, la capitale insorta dopo la sconfitta, assediata e bombardata da un esercito non più imperiale, ma repubblicano, e tuttavia sempre e soltanto francese. Una guerra civile, insomma.
Fargue e Larbaud erano nati che la carneficina era avvenuta da poco, nel 1876 il primo, nel 1881 il secondo, e la loro giovinezza aveva coinciso con quel cambio di passo in cui messe forzatamente da parte le ambizioni politiche che per tutta la prima metà del secolo, e non solo, avevano turbato il sonno del Vecchio continente, quella che veniva a consolidarsi era una egemonia culturale, un predominio artistico, un'indiscussa quanto indiscutibile primazia. Era anche, naturalmente, una questione di moda e di mode, la Belle Époque cui solo la Prima guerra mondiale metterà fine, con i suoi balli, le sue feste, le sue mises, le sue stravaganze e i suoi scandali, ma aveva soprattutto a che fare con un rinnovato status intellettuale che dopo Chateaubriand e Victor Hugo, in cui l'epica si mischiava alla politica, vedeva l'affermarsi dello scrittore civile, l'Émile Zola del suo J'accuse in difesa del capitano Dreyfus, e quindi un suo nuovo ruolo di coscienza critica dell'anima di un Paese, un qualcosa di unico, mai verificatosi in nessun'altra nazione europea, e che contribuiva a fare dell'intellò una vera e propria figura sociale, con i suoi ritmi, i suoi miti, una sua fierezza non priva di snobismo.
Eppure, all'indomani della Grande guerra, sia Fargue sia Larbaud si accorgono che qualcosa sta mutando, nel panorama come nel clima, culturale e no, che pervade Parigi. Ciò emerge con maggior compiutezza nel primo, flâneur per eccellenza come si evince dallo stesso titolo del suo libro. Più internazionale, più uomo di mondo, a suo agio con l'inglese, l'italiano, lo spagnolo, Larbaud ha inoltre già dato un taglio alle sue iniziali esperienze come scrittore francese tout court, per concentrarsi su una attività di traduttore e mediatore culturale che lo porterà a far conoscere in patria Joyce, Svevo e Gomez della Serna, per citare soltanto tre nomi presenti nella sua infaticabile attività. Per lui, essere parigino è uno status della mente, non una connotazione geografica, qualcosa come essere un ateniese per il mondo classico, un traguardo ed insieme un privilegio che va ben al di là delle semplici coordinate storico-geografiche. Vero parigino è per Larbaud chi, come lui, può contribuire alla ricchezza spirituale di Parigi...
Razionalmente, anche Fargue la pensa così, ma il cuore gli dice che c'è un'anima di Parigi, meglio, una poesia di Parigi, che non ha bisogno della scrittura per esprimersi: «Ci sono coloro che conoscono i segreti della felicità che nasce dall'incontro di sensibilità e di quartiere. È per questo che conferisco il nobile titolo di poeta ai carrozzieri, ai venditori di biciclette, ai droghieri, agli ortolani, ai fioristi e ai fabbri di rue d'Aubervilliers, del quai de la Loire... A vederli, a sorridere loro di corsa sui marciapiedi carichi di fatiche, a chiedere notizie delle loro figlie, a vedere i loro figli soldati, mi sento felice fino alle ghiere segrete del mio vecchio cuore senza odio».
Nel decennio che separa l'uscita dei loro libri, il 1927 per Giallo azzurro bianco, il 1939 per Il pedone di Parigi, cambia del resto anche il clima artistico-ideologico-politico della Francia e della sua capitale. Larbaud può in fondo ancora confrontarsi con quel fermento degli anni Venti che vede la grande ondata anglo-americana degli Hemingway, dei Pound, dei Joyce e dei Fitzgerald, nonché le nuove avanguardie letterarie, dadaismo e surrealismo, il consolidarsi del cubismo, il jazz e le prime avvisaglie dell'arte astratta, un insieme che un critico d'oltre oceano definirà in seguito «la tradizione del nuovo».
Fargue ha invece a che fare con il tornante degli anni Trenta, l'avanguardia che si fa accademia e si autocelebra, il passaggio dal flâneur all'engagé, lo schierarsi senza se e senza ma, e tutto questo mentre la modernità avanza a passo di carica, la forbice fra povertà e ricchezza si allarga, quel mondo che, come scriverà «aveva un po' del quadro di Watteau e un po' della giornata di mezza quaresima» fatica ormai a ritagliarsi il suo spazio. Così, nel suo aggirarsi per Parigi sempre di più si immerge in un passato proustiano dove i nomi delle strade, delle piazze, degli alberghi risuonano come l'eco di un mondo perduto, meno convulso, forse più felice, di certo più poetico.
Montmartre, la sua tanto amata Montmartre, gli sembra «come quelle piccole nazioni d'anteguerra che ora servono solo a comporre operette come ad esempio la Bosnia-Erzegovina. Montmartre tramonta con la spensieratezza». Il pedone di Parigi esce che la Seconda guerra mondiale è appena scoppiata.