Controcultura

Il tocco senza fronzoli di un pianista leggendario. "Avrei voluto conoscere tanta altra musica..."

Vinse il Premio Chopin da ragazzo e si trovò subito nel Pantheon dei grandi. Ma non smise mai di studiare e di crescere Schivo e riservato, era un mostro di buon gusto e di tecnica

Il tocco senza fronzoli di un pianista leggendario. "Avrei voluto conoscere tanta altra musica..."

«Lei è un missionario della musica», esclama il regista durante le riprese del docufilm che sta girando su di lui. «Ma no, la prego. Faccio tutto per il mio assoluto piacere. O quasi». In questa risposta sincera fino al cinismo c'è l'essenza di Maurizio Pollini, uomo e pianista: allergia ai toni enfatici, aristocratico distacco, schiettezza. Maurizio Pollini, il più grande pianista italiano degli ultimi decenni, è morto ieri, nella sua casa di Milano, la città dove nacque, crebbe, si formò e ritornò fra un viaggio e l'altro nel corso di una vita da concertista itinerante nel mondo. Che l'ha insignito di una serie di premi, Ehrenring, dai Wiener Philharmoniker, Goldenes Ehrenzeichen della città di Salisburgo, Ernst-von-Siemens Musikpreis di Monaco, Artiste étoile al Festival di Lucerna, Premio Imperiale a Tokyo, Royal Philharmonic Society Award.

La camera ardente si terrà martedì prossimo al Teatro alla Scala, la dimora musicale milanese dove si esibì dall'11 ottobre 1958 al 13 febbraio 2023, per 168 volte.

Aveva compiuto 82 anni il 5 gennaio, giorno di nascita di due altri assi della tastiera, Alfred Brendel e Arturo Benedetti Michelangeli che fu anche suo docente - «Se io parlo poco, lui parlava ancora meno», disse dell'altro gran Lombardo, se possibile ancor più schivo di lui. Suonava dall'età di cinque anni, o forse dai sei, non amando guardare indietro, ammetteva di non ricordare questo ed altri dettagli dell'infanzia. E comunque era restio a parlare di sé e della sua famiglia, papà era l'architetto Gino Pollini e violinista dilettante, lo zio era lo scultore e buon pianista Fausto Melotti, mamma studiò canto e pianoforte. Al suo fianco l'inseparabile moglie Marilisa, conosciuta nella prima adolescenza, dall'unione è nato Daniele, anch'egli pianista; «non sono il suo maestro, ma c'è un confronto continuo, un rapporto che penso possa essere proficuo. La cosa importante è che mio figlio faccia ciò che più lo rende contento. Se farà musica sarò certo soddisfattissimo», osservò.

Nel 1960, a 18 anni vinse la medaglia d'oro del concorso Chopin di Varsavia, la consacrazione dei pianisti. Atterrato a Malpensa, ad accoglierlo c'erano mamma, la prima a baciarlo, papà e uno sciame di giornalisti che se ne andarono frustrati: sui taccuini poterono appuntare risposte fra il telegrafico e monosillabico. Esauriti i concerti-premio dello Chopin, quel giovanotto tanto timido quanto audace si ritirò dalle scene per un anno e mezzo così da studiare in santa pace, «dopo Varsavia - avrebbe spiegato in là cogli anni - tutti mi chiedevano di suonare Chopin, ma un ragazzo di quell'età vuole fare molte altre esperienze musicali. Così sospesi i concerti e presi lezioni da Benedetti Michelangeli». Il tutto con la benedizione di Arthur Rubinstein che ai giurati del Concorso disse: «Tecnicamente questo giovane suona già meglio di tutti noi». Le parole di quel monumento del pianismo doppiarono il valore della vittoria.

Il pianoforte è stata la sua vita, l'ha amato per «le possibilità di trasformarsi, è bello vedere come reagisce. Ragione per cui sono tuttora entusiasta di essere pianista», ammise. Il repertorio non era particolarmente esteso data la cura maniacale nel costruirlo e poi «quando introduci un pezzo, sai che dovrai ripeterlo in varie città e circostanze, dovrai studiarlo e ristudiarlo, dovrai avere un rapporto stretto e prolungato. Sono stato quindi attento a suonare pezzi che non mi avrebbero stancato. Però mancano molte opere che non mi avrebbero stancato, esiste una realtà musicale che non ho toccato e mi dispiace molto».

Nella prima gioventù visse di pura arte, ma la Primavera di Praga lo toccò al punto da spingerlo a prendere una posizione politica. Guardò a sinistra. Si apriva il capitolo dei concerti nelle scuole e fabbriche, occupate e non, al fianco del direttore e amico Claudio Abbado, un sodalizio che si era saldato con il concerto alla Scala del 1969 e mai si spezzò.

Per i suoi 75 anni, la Deutsche Grammophon pubblicò l'integrale delle incisioni: un monumento di 55 CD e 3 dvd. Perché Pollini aveva continuato a credere nel disco, «il pubblico significa moltissimo. Mi sento in una posizione più naturale quando suono in una sala da concerto, mi piace l'idea di poter suonare per qualcuno. Nella solitudine dello studio, la concentrazione può essere forte, ma richiede molto autoconvincimento. Però il disco conserva momenti, favorisce la conoscenza e alludo anzitutto a quella della musica contemporanea che può essere compresa solo dopo ripetuti ascolti», ci spiegò durante una cena con la stampa. Quella mano tremula però non prometteva bene.

Aperto alla contemporaneità, è stato dedicatario di opere di Luigi Nono, Giacomo Manzoni e Salvatore Sciarrino. Amò il Novecento sopra ogni cosa, in particolare Schoenberg, Berg e Webern. Eccelse in Beethoven e Chopin. Il suo è un pianismo «senza fronzoli» per dirla con Salvatore Accardo, mai niente di affettato, il fraseggio è così chiaro «che è come se tu leggessi la partitura».

La rivista Classic Voice riuscì a raccogliere in un cd le interpretazioni di un Pollini sotto i 15 anni, esecuzioni fatte in dimore milanesi, nel negozio Furcht e al Circolo della Stampa. A proposito degli Studi di Chopin, Pollini dichiarò che avevano chiesto «un enorme sforzo, non avevo una tecnica abbastanza sviluppata».

L'ascolto dimostra esattamente il contrario. Già disponeva di un sorprendente arsenale tecnico. Agilità, agilità di forza, velocità, spolvero, resistenza: dell'avambraccio, per esempio. C'era già tutto, musicalità prorompente, intelligenza interpretativa, attitudine allo scavo, stoffa del concertista. Cosa chiara al suo primo insegnante Carlo Lonati che gli diede «i primi rudimenti della tecnica.

Poi basta, mi lasciava suonare a modo mio».

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