Politica

Le violenze mettono in crisi il governo Erdogan

Incertezza tra i musulmani moderati alla guida del Paese: imporre il proprio candidato solo grazie alla forza dei numeri in Parlamento sarebbe un errore

Le violenze mettono in crisi il governo Erdogan

Il sanguinoso episodio di Malatya ricorda il permanere di uno degli aspetti più inquietanti del grande Paese musulmano candidato a entrare nell’Unione europea. Ed è certo che fatti violenti come questi giocano contro le ambizioni di Ankara, che appena due giorni prima si era vista respingere dalla presidenza tedesca dell’Ue la richiesta del premier Recep Tayyip Erdogan di fissare una data limite (non oltre il 2015) per l’ammissione della Turchia all’Ue.
Intanto la data dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica turca si avvicina. Il 26 aprile il Parlamento di Ankara sarà chiamato a una scelta delicata, sulla quale il sangue versato a Malatya non mancherà di influire. Sulla carta tutto sembrerebbe scontato, dal momento che l’Akp, il partito filoislamico al potere, dispone della maggioranza assoluta dei seggi. La Turchia, però, è un Paese speciale, dove l’ascesa per via democratica di un movimento d’impronta religiosa incontra ostacoli assai impegnativi da superare: è il Paese di Kemal Atatürk, il padre della patria che ottant’anni fa impose una svolta nazionalistica e del costume, avvicinando la Turchia all’Occidente anche attraverso la limitazione del ruolo dei religiosi (il che vuol dire dell’islam, in un Paese che è musulmano al 98 per cento). A guardia della laicità dello Stato Atatürk pose l’esercito, e in questo senso da allora ben poco è cambiato.
Ma non è solo l’esercito, autore in passato di diversi colpi di Stato per garantire a modo proprio la continuità della linea indicata nella Costituzione, a frenare le ambizioni di Erdogan e del suo partito. C’è una forte opinione pubblica che rabbrividisce all’idea di veder tornare il velo sul volto delle donne o riprendere spazio opinioni retrograde nei gangli vitali dello Stato: e lo ha dimostrato scendendo in piazza in una gigantesca manifestazione sabato scorso. Ci sono ambienti economici ben decisi a ostacolare la concentrazione delle due principali cariche dello Stato (oltre che del controllo del Parlamento) nelle mani del partito filoislamico: in tal senso si sono espressi la presidente della Confindustria turca (non a caso una donna) e l’ex governatore della Banca Centrale. Entrambi hanno lasciato capire che Erdogan presidente della Repubblica scontenterebbe le categorie produttive, alludendo a «turbolenze non solo politiche».
Ci sono infine i partiti. Erdogan ha cercato attraverso incontri personali il sostegno in Parlamento di due formazioni minori del centrodestra, ma con esito deludente. Erkan Mumcu, leader del partito Anap (20 seggi) ha detto che non deciderà nulla prima di conoscere il nome del candidato dell’Akp, cosa che probabilmente avverrà l’ultimo giorno utile, ossia il 24; Mehmet Agar, capo del minuscolo Dyp (4 deputati) ha addirittura lasciato aperta la questione del numero legale (367 deputati) per poter far svolgere la votazione. Insomma, un buco nell’acqua.
Ma, peggio ancora, perfino nello stesso partito di Erdogan c’è chi giudica inopportuno il suo ingresso al Kosk, la residenza del presidente della Repubblica turca. L’ex premier Yalcinbayir, ricordando che l’Akp ha ottenuto una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento con il 34 per cento dei voti e solo grazie a una legge elettorale che impone una soglia di sbarramento altissima (il 10 per cento), ha parlato di «inopportunità etica e democratica» di permettere all’Akp di trasformarsi in un «partito pigliatutto». Yalcibayir suggerisce che non sia l’attuale Parlamento, ormai in scadenza, a eleggere il capo dello Stato.
Erdogan ha replicato riaffermando la fedeltà alla linea secolarista sancita dalla Costituzione turca: «Non distruggeremo la laicità», ha promesso. Rimane il fatto che l’Akp cercherà di usare questi ultimi giorni per sondare le acque e decidere - solo all’ultimo momento, con ogni probabilità - se candidare Erdogan sia la scelta migliore. Nel suo partito, accanto ai prudenti scettici già citati, non manca chi morde il freno. Un gruppo di militanti dell’Akp ha tirato fuori un fotomontaggio di Erdogan in abito presidenziale durante una riunione, e il capolavoro è finito al telegiornale e su internet.

Suscitando ovviamente furiose polemiche di cui nessuno sentiva il bisogno.

Commenti