Alberto Cantù
da Bologna
Giancarlo Del Monaco, figlio di Mario il bronzeo tenore, è un «regista di idee»: quelli, come recita luogo comune, «che fanno discutere».
Evviva le idee e la dialettica in tempi come i nostri di inerzia televisivo-mentale. Evviva questo Andrea Chénier - è il capolavoro anno 1896 di Umberto Giordano - che Del Monaco, in laica trinità (regia, scene, costumi) ha pensato per il Teatro Comunale di Bologna e, dopo due anni di rodaggio, con un cast vocale di grande peso o dignità - tutti: anche le figurette, per nulla secondarie - e una solida, eloquente bacchetta funziona da perfetta macchina teatrale. Dove le idee - grande successo domenica alla «prima» (si replica fino al 22) - hanno la meglio sugli «azzurri sofà» di sbracata tradizione.
Lopera romanza vita, amori e morte del poeta francese. I quattro «quadri storici» vanno dal 1789, alle soglie della Rivoluzione, agli anni bui di Robespierre e del Terrore. Del Monaco ambienta la festa di aristocratici nel giardino dinverno, in un teatrino di plexiglas con pittorico, neoclassico fondale che crollerà addosso a un mondo di fantasmi, di bianche larve sotto una luce livida. «Sua grandezza la Miseria» che batte alla porta della storia, si prosciuga in una Pietà scultorea: un uomo lacero che tiene fra le braccia il corpo nudo e senza vita del figlio.
Negli altri «quadri», dove la storia fa da piedistallo alle esplosioni passionali dei personaggi e alla vena generosa di Giordano, le nefandezze del Terrore scorrono sul fondo - carrette, boia, condannati, spie - tra cupi o rosseggianti drappeggi con il convegno notturno delle «Meravigliose» (sono prostitute) di inquietante realismo e la grata-prigione del finale che esalta un amore idealizzato. Impeccabile.
Dopo anni José Cura lascia la bacchetta e torna sul palcoscenico con un ruolo, lui tenore lirico spinto e uomo prestante che sembra scritto ad personam. Torna - giurin giuretto - nella forma più smagliante mai sentita e con una maturità espressiva nuova (solo lordine ritmico è rimasto quello ballerino dun tempo). L«Improvviso», che non è certo un bon bon quanto a fraseggio, lirismo e accensioni, Cura se lo beve come un paio duova fresche e il teatro vien giù dagli applausi. «Come un bel dì di maggio», il suo addio alla vita, conosce fiati lunghi e acuti svettanti ma anche maliose dolcezze e mezze voci cui il cantante, anni fa, non avrebbe badato.
Maria Guleghina - Maddalena - allinizio pigia, un po generica, il pedale delleffettismo. Poi, da «Ora soave» a «La mamma morta» al fluviale e impegnativo duettone finale, sa piegare un pathos accalorato alla sfumatura dolente e allaccento interiorizzato.
Impeccabile come baritono nobile alla Verdi e baritono sfogato che anticipa le concupiscenze di Scarpia nella Tosca è il Gérard di Carlo Guelfi, dalla dizione scolpita e di formidabile presenza scenica.
Bravi, bravini (il coro, non entusiasmante) o bravissimi (una giovane Annie Vavrille quale «vecchia» Madlon, Carlo Cigni schietto Roucher) gli altri.
Limpida, sinfonica ed eloquente la direzione di Carlo Rizzi. Ma occhio a non coprire le voci.
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