"Cucchiaio", sussurrò il bambino. Il padre, zapatista, in esilio negli Stati Uniti, aveva obbligato la famiglia a trasferirsi a Los Angeles. "Cucchiaio", ripeté il bambino. Non conosceva la parola spoon, non conosceva una parola in inglese. I bambini presero a ridere. Pranzo, refettorio, il bambino aveva dimenticato il cucchiaio. Avrebbe digiunato pur di difendere quella parola. Cucchiaio. Le risate dei compagni: una lapidazione. "All'uscita, sulla ghiaia del cortile, il chiasso mi circondò. C'era chi si avvicinava e mi gettava in faccia, come uno sputo, la parola infame: cucchiaio!... Partirono pugni, finché il bidello non ci separò. Al rientro, fummo sgridati. Non capii nulla della ramanzina". Era il 1919, l'anno dopo il bambino tornò in Messico, a Mixcoac, a casa del nonno, don Ireneo, "massone, militare, drammaturgo, poeta, romanziere e giornalista satirico".
Nell'episodio, araldico, c'è tutta la vita di Octavio Paz. L'estraneità e la lotta, il corpo e il verbo. Il cucchiaio, in fondo, è un arnese simbolico: serve a scavare e a sfamarsi due verbi adatti a significare la poesia ; sembra una conchiglia e una catapulta. Il mare, la guerra, il pasto. Octavio Paz scrisse la prima poesia nel 1922, a otto anni; dieci anni più tardi arrivò il primo libro: s'intitolava Luna silvestre, fu stampato in settantacinque copie. Nel 1936, come si conveniva, uscì ¡No pasarán!, un poema "scritto in favore della Repubblica spagnola minacciata dall'insurrezione franchista". Tuttavia, il poeta capì quasi subito tutto dei torbidi che laceravano il fronte dei Repubblicani: fu per il Poum (il Partito Operaio di Unificazione Marxista, in cui operava anche George Orwell) e lo vide sagomato di sicari. Incontrò Trockij, esiliato in Messico; dopo la Seconda guerra sarà uno dei più strenui oppositori del regime stalinista: "l'impero comunista perché in questo si era trasformata l'unione di repubbliche fondata dai bolscevichi era uscito dal conflitto più forte e più grande di prima: Stalin aveva consolidato la sua tirannia all'esterno, e all'interno si era inghiottito mezza Europa".
Nell'introdurre il titanico Meridiano di Octavio Paz (Poesie e prose scelte, Mondadori, pagg. CVI+1842, euro 80; il "progetto editoriale" è coordinato da Ernesto Franco), Massimo Rizzante attacca con la domanda capitale: "A chi importa oggi leggere uno dei tre o quattro (con Seferis, Yeats, Eliot, Valéry) poeti-critici più importanti del XX secolo? A chi importa leggere le opere dell'intellettuale più influente dell'America latina?". Nobel per la letteratura nel 1990, genio polimorfico, Paz appartiene all'ultimo ciclo dei poeti-sapienti, quelli che Dante avrebbe posto nel cielo del Sole: insieme a lui, Seamus Heaney e Derek Walcott, Ghiannis Ritsos e Mario Luzi, Czesaw Miosz e Wystan H. Auden. Da allora è come se si fosse interrotto un ciclo, occluso un cielo.
Perché non si legge più Octavio Paz? Perché atterrisce. Perché la grandezza sconcerta quest'epoca inerte, resa a chi urla più forte. Fare una gita nella vita di Paz apre squarci vertiginosi sul Novecento. Nel luglio del 1937 il poeta partecipa ai lavori (un po' velleitari, invero) del "II Congreso Internacional de Escritores para la Defensa de la Cultura", coordinato da André Gide e da André Malraux: Paz si unì a Rafael Alberti e a María Zambrano. Nel 1945 fa amicizia con il poeta statunitense Robert Frost ("Con la sua camicia bianca aperta... i suoi occhi azzurri, innocenti e ironici, la sua testa da filosofo e le sue mani da contadino, sembrava un vecchio saggio"); nel 1952, all'Imperial Hotel di Tokyo, conosce Yukio Mishima; a Parigi legherà con Emil Cioran, a cui dedica una poesia, Passo di Tanghi-Garu: "Sole fisso, inchiodato/ nell'enorme cicatrice di pietra./ La morte ci pensa". Non sopportava Sartre, "un ideologo" che "ha pochissima stima per la poesia". Ambasciatore in India dal 1962, accompagnò Julio Cortázar in un tour indimenticabile: "Octavio, che tutto sa e sente, era il mio Ermete Psicopompo, la guida sottile che conosce ogni curva simbolica delle rocce, ogni intenzione nascosta nei testi". Amico di Marcel Duchamp e di John Cage, durante il discorso di accettazione al Nobel disse l'unica cosa che va detta: "Vivere bene richiede di morire bene. Dobbiamo imparare a guardare la morte negli occhi". In prime nozze fu unito, tempestosamente, alla scrittrice Elena Garro; le poesie della figlia, Helena Paz Garro, piacquero a Ernst Jünger.
Quando ero ragazzo, Massimo Gezzi poeta, si occupa di Eugenio Montale e di Franco Buffoni, ha da poco pubblicato per Feltrinelli il romanzo Adriatica mi fece scoprire L'arco e la lira, superbo saggio di Octavio Paz. Lo pubblicava Il Melangolo nella traduzione di Fulvia Bardelli. Fin dalla prima frase ("La poesia è conoscenza, salvezza, potere, abbandono"), quel libro ci gettò nel gorgo di una rivelazione; quel poeta sembrava sapere, letteralmente, tutto. Octavio Paz tentava di fondere con esaltante ardore Oriente e Occidente, il mito indiano ("Dalla bocca di Krishna scorre il fiume della creazione") e quello greco, Laozi, il maestro taoista, e Suor Juana Inés de la Cruz, la straordinaria poetessa e intellettuale messicana vissuta nel XVII secolo (a cui Paz dedica uno dei suoi studi fondamentali, Suor Juana o le insidie della fede). "L'operazione poetica non è diversa dall'esorcismo, dall'incantesimo", scrive Paz, "e l'attitudine del poeta è molto simile a quella del mago". Credeva che "la rivelazione poetica comporta una ricerca interiore". Lo stesso tema ritorna nel saggio più potente raccolto nel Meridiano, Lettura e contemplazione, in cui Paz si interroga sui rapporti "tra l'esperienza poetica e quella religiosa". La poesia ha senso soltanto se è efficace, se fende la nostra vita, se fonda qualcosa. La poesia suggerisce un altro senso all'opera letteraria: farsi operazione, parola capace di operare in noi, di corrispondere a un qualche convertirsi. "Tra il senso e il nonsenso, tra il dire e il tacere, c'è una scintilla: un sapere senza sapere, un comprendere senza capire, un parlare mentre si tace".
Tra i libri lirici più belli strepitosamente adunati nel Meridiano, suggerisco Bianco, testo rituale a tratti sconvolgente, che fonde eros e I-ching ("Steppa infuocata/ dal giallo al rosso carne/ la terra è un linguaggio calcinato./ Ci sono aculei invisibili, ci sono spine/ negli occhi"). Tra gli articoli, iniziate da quelli su Fernando Pessoa e Boris Pasternak; bene hanno fatto i curatori ad accogliere le traduzioni di Paz dai poeti indiani, cinesi, giapponesi: Basho non è mai stato così Basho, ci voleva un poeta messicano a rivelarlo a se stesso ("Ammirevole/ non dice, di fronte al lampo,/ la vita fugge..."). Pressoché ogni riflessione di Paz pare scritta per noi, oggi; ad esempio, questa: "Le chiese romaniche, gli stupa buddisti e le piramidi mesoamericane si basavano su una certa idea di tempo e le loro forme erano una rappresentazione del mondo: l'architettura come doppio simbolico del cosmo... Che cosa dicono i nostri hangar, le nostre stazioni ferroviarie, i palazzi di uffici, le fabbriche e i monumenti pubblici? Non dicono: sono funzioni, non significati. Sono segni che emanano potere, non senso".
Nel 1996 il poeta scrisse al subcomandante Marcos, esortandolo ad abbandonare la lotta armata.
Morirà due anni dopo, il 19 aprile del 1998. Al funerale partecipò una folta delegazione politica indiana; spiccava Sonia Gandhi. Un terremoto di magnitudo 5.4 squarciò Città del Messico. Anche gli dèi, a volte, indossano il lutto.