Lo chef stellato Davide Oldani è la sintesi fatta persona. Si parte dal logo, D'O, e si arriva alla sua cucina e al concetto di ospitalità: niente fronzoli, ma essenza, equilibrio e armonia. Questi i pilastri della filosofia che alimenta il marchio D'O, le due lettere impresse al ristorante di Cornaredo, in provincia di Milano, ma anche alla collana di accessori da tavola che Oldani s'inventa, ai libri: con i due attesi entro il 2018 si tocca quota dieci. È anche un attivo conferenziere, il 7 settembre sarà a Camogli per il Festival della comunicazione (6-9 settembre). Un imprenditore nato, stratega nel confezionare slogan. Uno su tutti: Cucina pop. La sua.
Pop sta per...?
«... essenziale e ben fatto, buono e accessibile, innovazione e tradizione».
In che senso accessibile?
«Il cibo deve essere per tutti. Il mondo finalmente sta andando nella direzione di una democratizzazione. Io ho iniziato quindici anni fa a parlare di questo concetto, poi consacrato da Expo. Vorrei chiarire che pop non significa basso profilo ma eleganza e di conseguenza essere italiani. L'eleganza è tutto ciò che favorisce il rispetto per il prossimo».
È il pioniere di alta cucina a prezzi democratici. Cucina top a costi pop: suona però come un ossimoro.
«Invece basta rispettare stagionalità e territorialità e i due aspetti si conciliano. Avere un prezzo corretto vuole dire semplicemente non essere cari, vuole dire attingere ai prodotti del territorio a loro volta acquistati in modo corretto».
«Mangia come parli» è il titolo del suo intervento a Camogli. Di cosa parlerà?
«Dell'etica in cucina, o meglio: della cucina etica. Del rispetto dell'ingrediente, del rifiuto dello spreco, della stagionalità. Parlerò della mia concezione di cibo inclusivo e non esclusivo. La cucina è l'unica cosa che interessa all'uomo al 100%. Lo sport, il movimento, la cucina sono il perno dell'esistenza umana».
Lei è uno sportivo?
«Il mio sogno era diventare un calciatore, giocavo in serie C2, nella Rhodense. Poi un incidente troncò tutto. Ora pratico molta bicicletta».
Come e cosa si mangia da sportivi?
«Il punto di partenza è la selezione di prodotti di qualità, quindi si presta attenzione alla quantità. Con gli anni è mutata l'idea di quantità».
I parametri sono cambiati per tutti, non solo per gli sportivi.
«Certamente, anche perché sono cambiate le professioni e dunque le esigenze alimentari. La cucina deve consentirci di vivere bene e di essere in forma. Non puoi lavorare bene se non hai mangiato bene».
Ha tracciato le direttive didattiche dell'Istituto alberghiero di Cornaredo, l'Olmo. Dicono che abbia fatto una rivoluzione.
«È un cambiamento radicale reso possibile dalla disponibilità del preside e degli alunni. Stiamo stravolgendo il programma ministeriale, lo stesso da trent'anni. E in trent'anni è cambiato tutto in cucina».
Cosa irrimediabilmente?
«Il modo di nutrirsi. Adesso si parte con l'approfondire la questione degli ingredienti e della stagionalità, e solo dopo si pensa al piatto finito. La ricetta non è più qualcosa di imprescindibile, lo è il componente: si parte dal prodotto, poi si arriva alla ricetta. Sono coinvolto in un progetto con Barilla dove incontriamo agricoltori che producono materia prima. E sono estasiato per quanto e come gli agricoltori si impegnano».
Che ruolo ha nella scuola?
«Sono mentore di progetti. Per esempio, ho ideato l'iniziativa Maestri all'Olmo, una serie di incontri con le eccellenze della cucina italiana. Abbiamo invitato chef come Romito, Crippa, Berton, Cracco, Cerea. Ora coinvolgerò sempre di più anche i campioni dello sport».
Ha già in testa qualche nome?
«Gallinari, Maldini, Zanetti».
E l'amico Federer (che con Oldani è protagonista di uno spot Barilla ndr)?
«Lo incontro a fine settembre. Chissà».
Perché coinvolgere questi campioni?
«Perché sono stati modelli di fair play».
Da applicarsi anche in cucina
«Anzitutto in cucina».
Regola d'oro in tal senso?
«Stretta di mano al mattino e la sera prima di chiudere».
Tutto questo rientra nella logica di un'armonia fra i contrasti?
«È determinante avere rapporti equilibrati con le persone, rapporti improntati al rispetto. A volte bisogna dire di sì e a volte di no sapendo che l'equilibrio è cruciale per relazioni umane».
A proposito dell'amalgama di contrasti, il suo piatto emblema è la cipolla caramellata.
«Concilia croccante e morbido, zuccherato e salato, freddo e caldo. La ricerca di un'armonia nell'equilibrio dei contasti guida tutta la mia cucina, e per me significa non solo una promessa di dolce nel salato e una memoria di salato nel dolce, ma la coesistenza armoniosa in ciascun piatto di tutto ciò che stimola il palato: morbido, croccante, caldo, freddo, dolce, amaro».
È grande sostenitore del principio del bello ma funzionale. Un retaggio lombardo?
«Non necessariamente. Secondo me, credere in questo vuole dire essere realisti; alla base di tutto ci dev'essere la funzionalità oltre che la sostenibilità».
Tradotto nel concetto di ospitalità cosa vuole dire?
«Per esempio avere tavoli e sedie di un certo tipo. La statura delle persone è aumentata rispetto a un tempo, ma le norme che regolano l'altezza di tavoli e sedie sono legate a modelli del passato. Per questo ho disegnato tavoli e sedie più alti».
Ma come dev'essere fatta una sedia per assaporare al meglio un piatto?
«Deve favorire una postura eretta. Non si può mangiare bene se lo stomaco è piegato».
Date queste premesse, probabilmente quando Piero Lissoni ridisegnò il ristorane D'O non ebbe carta bianca.
«Ofelè fa el to mesté, dice un proverbio milanese. Piero è uomo intelligente e ha capito cosa volessi, quindi abbiamo trovato le condizioni per poterci esprimere entrambi».
Ma i tavoli li ha disegnati lei
«Questo sì».
Le piace come si sta evolvendo il design in cucina?
«Io sono imprenditore, ho costruito un'attività. Ho valutato le molte cose che ci sono sul mercato ma non ho trovato risposte alle mie esigenze. Quindi ho costruito un progetto tutto mio, cioè la mia linea di design».
Lei dice che a tavola devono regnare funzionalità e razionalità. Cosa non deve esserci, per esempio?
«Il superfluo. Quando si fa la spesa bisogna pensare prima di comprare e pesare prima di cucinare. Poi bisogna rispettare le stagioni e non buttare via soldi».
Quanto contano le luci giuste in un ristorante?
«Tanto. Io ho applicato il progetto di Piero Lissoni per Flos. Seguendo le istruzioni di Piero, abbiamo ottenuto un'illuminazione bella e pure sostenibile».
Luci soffuse?
«Hanno l'intensità che consenta di leggere e di vedersi, ma non sono invadenti».
E che dire della musica di sottofondo? È proprio necessaria?
«Sono convinto che vada bene, una buona compagnia musicale aiuta a stare bene. Direi qualcosa di soft che serva a lanciare la serata e accompagni i vari momenti da quando c'è poca gente al punto in cui il locale è pieno. Non conta il genere musicale».
Quando entra in un ristorante, da cosa viene colpito anzitutto
«Dal grado di accoglienza. Non deve mai mancare un bel sorriso, il resto viene da sé».
Quanto è lunga la lista d'attesa di D'O?
«Intorno ai quattro mesi. Ma con la possibilità di un last minute in giornata qualora vi fosse una disdetta».
Ha detto che da ogni errore nascono nuove possibilità. Nel suo caso, quali errori hanno prodotto i frutti più interessanti?
«L'avere disubbidito a papà quando giocavo a calcio. Alla fine ebbi un incidente, ma proprio per questo mi appassionai alla cucina».
Appresa da mamma?
«Sicuramente in parte. Anche perché quando uscivo per gli allenamenti, papà mi chiedeva, o meglio mi imponeva, che prima aiutassi mamma in cucina. Solo dopo sarei potuto uscire».
All'università di Harvard ha raccontato la sua esperienza imprenditoriale. La sua organizzazione al lavoro è stata considerata applicabile in diversi ambiti e non solo alla ristorazione. È diventato un caso di studio.
«È semplicemente un esempio di economia applicata alla stagionalità. Se compri i prodotti di stagione, il prezzo è competitivo e ti nutri meglio. Altra regola, come dicevo prima, guai se manca la stretta di mano in cucina al mattino e la sera quando si esce: cosa che vale in tutti gli ambienti lavorativi».
È uno scrittore seriale. Pare stia lavorando ad altri due libri.
«Usciranno per la fine dell'anno. Uno tratta dell'interpretazione etica del termine business. L'altro è centrato sulla chiave per raggiungere una soddisfazione personale, un testo nato dalle conversazioni con alcune mie grandi amiche, discorsi fra un cuoco e le donne».
E come si arriva a una soddisfazione personale?
«Sulla spinta di una grande voglia di fare. Grazie allo spirito di sacrificio. Perché la chiave del successo è una, a prescindere dall'attività esercitata».
Dove trova il tempo per scrivere libri?
«È la mia passione. E poi se vuoi comunicare, non devi restringere il cerchio a poche persone, devi allargarti e soprattutto mettere nero su bianco. La passione è cruciale, ti porta a fare tante cose, a stare sempre accesi. La vita è breve, va guardata con gli occhi di un bambino e attraversata con l'intelligenza e la maturità dell'adulto. In questo momento penso agli occhi curiosi di mia figlia Camilla Maria, di quattro anni. La curiosità è il sale di tutto».
Com'è sua moglie Evelina ai fornelli?
«Ha un bel gusto. Ieri ha cucinato lei».
Lei per se stesso cosa cucina?
«Uso solo ingredienti stagionali».
Ha avuto grandi maestri, tra cui Gualtiero Marchesi e Alain Ducasse. Cosa ha appreso da entrambi?
«Marchesi è stato un secondo padre, mi ha inculcato il senso del dovere. Ha riconosciuto il mio lavoro venendo al mio ristorante. Da Ducasse ho imparato l'aspetto manageriale di questo mestiere».
Sostiene che il vino debba avere la giusta collocazione e importanza in un pasto. Quale sarebbe?
«Il vino va bevuto perché è una delle cose belle della vita, ma non bisogna andare oltre una certa quantità».
Mai come ora la cucina ha una visibilità incredibile. Con quale risultato?
«Più si parla di cucina e meglio è. Anni di televisione hanno fatto solo bene. Stesso discorso vale per i social».
E che dire dello chef-star? Come si sente in questi panni?
«La star è un'altra cosa. Posso assicurare che gli chef molto noti che frequento regolarmente si fanno un paiolo grande così. Arriviamo tutti da gavette incredibili».
La sua di gavetta quanto è durata?
«Durerà fino al giorno in cui chiuderò gli occhi».
Chiede, giustamente, che al ristorante D'O gli uomini evitino i pantaloncini.
«Ognuno è libero di fare quel che vuole. Però sarebbe meglio il pantalone lungo».
Quindi non rimanda indietro gli ospiti in bermuda?
«Assolutamente no. La cosa che conta è quello che uno ha dentro».
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