Bob Dylan è il premio Nobel per la letteratura più scontroso di sempre. Nel 2016 seminò il panico nella Accademia di Svezia che lo aveva appena incoronato. Non accettò. Non rifiutò. Silenzio totale. Per giorni. Alla fine, affidò la risposta a una riga nascosta in una intervista rilasciata a un periodico di musica rock. La consegna fu un altro piccolo trauma per i giurati. Dylan non si presentò e mandò Patti Smith al suo posto. La cantante lesse il discorso di accettazione e giù altre mazzate per interposta persona. Dylan faceva educatamente notare che mai aveva pensato ai testi delle canzoni come a possibili poesie. Musica e parola non si possono dissociare: "Le canzoni sono fatte per essere cantate, non stampate su una pagina. E io spero che molti di voi ascoltino i miei testi nel modo in cui sono stati creati: cioè in concerto, sui dischi o sui nuovi media". Conclusione: "Le canzoni sono vive in una terra di vivi. Le canzoni non sono letteratura". E così il tentativo di essere "innovativa" dell'Accademia fu ridotto a una sciocchezza.
Ora, però, abbiamo una novità da registrare: per la prima volta, Dylan accetta che una scelta (autorizzata) dei suoi testi sia raccolta in un volume appartenente a una collana di poesia, accanto ad Anne Carson e a Dylan Thomas, a Charles Wright e a Walt Whitman. Notizia nella notizia: lo fa con una casa editrice italiana, Crocetti. Ed ecco quindi Bob Dylan, 64 Lyrics, a cura di Alessandro Carrera e Carlo Feltrinelli, Crocetti, pagg. 370, euro 18. Stringata, ma bella e onesta, l'introduzione dei curatori. Da un lato, non c'è dubbio che i numi tutelari di Dylan vadano cercati nel mondo della canzone: Woody Guthrie, Johnny Cash, Hank Williams, Frank Sinatra, Muddy Waters, Billie Holiday. Dall'altro, notano come i testi di Dylan risuonino e passino anche l'esame, per niente scontato, della traduzione.
L'impressione, leggendo 64 Lyrics, è che Dylan abbia studiato con molta attenzione la Bibbia: si direbbe questa, in realtà, la sua fonte principale. "Dopo aver scritto A Hard Rain's A-Gonna Fall sapevo che non avrei avuto problemi come autore". La canzone è del 1962, e più che alla crisi di Cuba, fa riferimento alle pagine apocalittiche della Bibbia, e alla numerologia del Vecchio Testamento: "E dove sei stato, figlio mio dagli occhi azzurri? / Dove sei stato, mio caro ragazzo? / Ho inciampato sul fianco di dodici montagne brumose, / Ho camminato strisciando su sei strade tortuose / Sono andato dentro a sette cupe foreste, / Sono stato davanti a una dozzina di oceani morti, / Mi sono addentrato per diecimila miglia in una tomba, / E una dura, una dura, una dura, una dura, / Una dura pioggia cadrà". Una splendida ballata. Nella struttura a botta e risposta, riprende Lord Randal, una canzone per bambini di origine scozzese.
Inutile riaprire la stanca diatriba sui cantautori italiani e le loro "poesie". Mogol certo si avvicina (ascoltate "la mente e i suoi tarli" nei Giardini di marzo di Lucio Battisti). Pasquale Panella, anche, ma Panella gioca in casa essendo anche un poeta (ascoltate la "dolcezza e liturgia" di Le cose che pensano di Lucio Battisti). Anche Giorgio Gaber con o senza Sandro Luporini sono della partita (ascoltate Gildo e soprattutto L'illogica allegria). Altrove domina la retorica, acerrima nemica della poesia.
Una cosa forse si potrebbe
osservare per "ribattere" alle idee di Dylan. Musica e poesia moderna nascono assieme, gli antichi manoscritti portano indicazioni musicali, è così in Spagna, nella Francia dei Trovatori e nella Sicilia dei notai-letterati.