Luciano Gulli
nostro inviato ad Atara (Cisgiordania)
Bisognava salire fin qui, fra i sequestrati di Atara, lungo i tornanti che si arrampicano fra le pietraie della Samaria, per godersi davvero la frenesia festosa di questa giornata memorabile. La musica a tutto volume (la solita nenia mortale, in effetti) che prorompe dagli altoparlanti; le ragazze con l'abito della festa e il fazzoletto immacolato stretto sotto la gola; i giovanotti tutti un fremito di ostentata virilità, caricati a mille, con la fascia di Fatah o di Hamas al braccio e sulla fronte; e centinaia di bandiere che sbattono nel vento e spaventano i colombi. E i bambini poi: un po' stralunati di fronte a tanto clamore, vestiti con l'uniforme della Guardia palestinese, già tenenti o capitani, a cinque anni, la pistola di plastica al fianco. Raglia forte l'asino legato al piede di un fico, spaventato dalle evoluzioni di un'auto imbandierata che fa il rally del paese, sgommando intorno alla moschea.
Si vota, finalmente, e per un giorno i sequestrati di Atara se la godono entrando e uscendo dal paese, ubriachi di libertà, ora che per un giorno i soldati israeliani, per fair play, hanno lasciato deserto anche il check point.
Mohammed Khatib, 43 anni, preside della scuola elementare maschile, fa gli onori di casa. Non un grano di polvere nelle due aule trasformate in seggio elettorale. La moglie del farmacista e le maestre nel ruolo di scrutatrici; gli uomini col cappellino bianco, nuovo di zecca, su cui campeggia la scritta: Central elections commission. Che compostezza, che emozione, ma anche che calma, tra la folla di uomini e donne che entrano al seggio e ne escono a petto in fuori, con l'indice sporco d'inchiostro. «Mica come sei mesi fa - racconta il preside Khatib - quando abbiamo votato per le amministrative, e quelli delle Brigate Al Aqsa sono venuti e si sono portati via le urne con le schede, temendo che vincessero quelli di Hamas».
Oggi, ad Atara, nessuno ha dubbi. Vincerà Al Fatah. «Perché se non vince il Fatah, addio processo di pace», sentenzia il mukhtar Mahmud Omar Selma, in arte Abu Saifi, sindaco del paese, 84 anni e 40 sigarette al giorno.
È bella e anche un po' commovente la storia di Atara. Un pugno di case a 810 metri di quota, 2300 abitanti, 14 chilometri a nord di Ramallah e una sola strada, quella che sale fin qui da Bir Zeit. Sfortunatamente, la strada è attraversata a valle del paese da quella che porta alle colonie ebraiche di Ateret, Beit El, Halmeth, Ma'ali Adumim. Così, sul ponte che scavalca la vecchia nazionale, i soldati israeliani ci hanno messo un bel posto di guardia e una torre di controllo in cemento armato e vetri antisfondamento, come se ne vedono negli aeroporti. Sicché uscire da Atara, quando la situazione nei Territori si fa marasmatica e magari un kamikaze si fa saltare a Tel Aviv, non si può, perché i soldati chiudono la strada. E chi s'è visto s'è visto. I sequestrati di Atara, appunto.
Il blocco del paese, quello duro, cominciò il 9 novembre del 2000, due mesi dopo l'inizio della seconda Intifada. «Due anni dopo, nel 2002, il blocco durò ininterrottamente per quattro mesi - racconta Mohammed Aouda Abu Rjaileh, 25 anni, laureato in chimica -. E io dovevo farmi quattro chilometri a piedi, giù per le mulattiere, prima di raggiungere la strada per Bir Zeit».
Racconta il mukhtar, il sindaco, keffiah a quadretti bianchi e rossi, abbarbicato a una stufetta a gas verso cui protende le mani ossute, da contadino: «Sono sei anni che viviamo così. Ogni tanto si passa, ogni tanto no. E badi: qui in paese non abbiamo avuto neanche un martire, questo è un villaggio pacifico. Eppure, ogni volta, scatta questa specie di punizione collettiva. Ma con gli ebrei dobbiamo convivere, non c'è alternativa. Glielo dice uno che ha visto i turchi, gli inglesi del generale Allenby, e sa tutta la storia».
Pazienza se un mese sì e uno no tocca buttare migliaia di uova prodotte negli undici allevamenti di galline del circondario. Pazienza se ogni anno, al tempo della raccolta delle olive, per dispetto, gli israeliani chiudono la strada per il frantoio di Arura, e allora bisogna caricare le olive sul dorso degli asini, o sulle auto, e avventurarsi a fari spenti giù per certe carrarecce. Pazienza se Rabah Fehmi e Ibrahim Elhaj hanno dovuto abbandonare i loro poderi, cedendo alle minacce e alle intimidazioni dei coloni di Ateret.
«Il futuro è nella pace. E solo Al Fatah può garantirla. Rubano? Perché, quelli di Hamas non avrebbero fatto altrettanto, se fossero stati al potere? E in Italia, chi ha avuto in mano la cassa non ne ha approfittato?». Oudeh Abu Rjaileh, padre del dottore in chimica (lui lavora in banca, a Ramallah) ospita nella sua bella casetta ridondante di modernariato arabo perdutamente kitsch. Tra un succo di frutta, un piattino di olive, e rape rosse sottaceto, e poi un pompelmo, una mela e un mandarino (saremo stati abbastanza ospitali?, dicono gli occhi della moglie che si affaccia ansiosa dalla cucina) il padrone di casa ragiona quieto. «Dobbiamo essere pragmatici. Senza i flussi finanziari che arrivano dall'Europa, dall'America, noi non possiamo vivere. Ma non possiamo neppure vivere isolati. Abbiamo bisogno di Israele, delle opportunità che Israele può garantire ai nostri giovani. Prima del 2000, una giornata di lavoro a Gerusalemme era pagata 150 shekel, contro i 70 che si potevano mettere insieme a Ramallah. Ecco perché le dico che la pace è essenziale.
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