La parola che fonda la letteratura americana è yawp. «Risuono il mio barbarico graculìo sopra i tetti del mondo». In italiano non suona bene perché yawp è yawp, intraducibile benedizione di una bestia, fra il ruggito e lo squittio. Secondo il vocabolario è qualcosa come «guaito» o «cicaleccio». Ridotto in cuneo verbale, to yawp, significa «emettere un grido rauco», ma pure «parlare a vanvera» e perfino «sbadigliare rumorosamente». Ecco riassunta la poesia di Walt Whitman, l'Omero degli Stati Uniti d'America, più vasta del West: un rumoroso sbadiglio che contiene chiacchiere e grida.
Il «barbarico yawp», in effetti, esplode al verso 1323 dell'oceanico Song of Myself, che è la Genesi e l'Esodo e la Bibbia tutta dell'«americanità»: il canto dell'ego che veleggia spermatico e gioioso sulle pianure sterminate (in tutti i sensi) seminando versi sensuali. L'autoritratto Zio Walt lo sbalza dopo 500 versi: «Walt Whitman, un cosmo, il figlio di Manhattan/ turbolento, carnoso, sensuale, che mangia, che beve e che procrea». Beh, proprio lui, l'uomo materico, che magna caga copula, si fregia di essere «il poeta del Corpo e il poeta dell'Anima», il poeta delle «molte voci a lungo mute», delle «infinite generazioni di prigionieri e di schiavi», «degli ammalati e dei disperati e dei ladri e dei nani» e delle «voci proibite/ voci di sessi e di lussurie, voci velate cui rimuovo il velo, voci indecenti che schiarisco e trasfiguro».
A quell'epoca Walt Whitman aveva 36 anni, era il 1855, la prima edizione di Foglie d'erba è pubblica, sul frontespizio c'è proprio lui, spavaldo, un po' annoiato, con il cappello a tesa larga portato di sbieco e la barba disordinata. La stazione finale di quell'acquazzone di versi che è Song of Myself, il bigino del Sogno Americano, che gli darà meritata e imperitura gloria dopo morto e parecchie accuse di oscenità da vivo, è costituita da memorabili epigrafi: «mi contraddico;/ sono vasto... contengo moltitudini»; «sono indomabile... sono intraducibile»; «lascio in eredità me stesso al fango per crescere dall'erba che amo/ se mi vuoi cercami sotto la suola dei tuoi stivali». Se leggere i grandi poeti, di solito, è uno shock mentale e sentimentale, leggere Whitman è una scossa psicofisica. Whitman ti afferra per i capelli e ti obbliga a lasciare tutto, zaino in spalla e palle in resta, per una radiosa irrequietezza lirica.
In effetti, parola di Harold Bloom, «Walt Whitman rappresenta la poesia del nostro paese, il genio delle coste del Nord America. Nessun altro americano è, come lui, un poeta universale». Zio Walt, dai cui versi, come un ghiacciaio imperterrito e perenne, provengono Ezra Pound («ti ho detestato ormai per troppo tempo/ vengo a te come un figlio cresciuto») e Allen Ginsberg («caro padre, grigio di barba, vecchio solitario maestro di coraggio»), Pablo Neruda (autore di una retorica e davvero banale Ode a Walt Whitman) e perfino Jorge Luis Borges («Io fui Walt Whitman» canta in Camden, 1892), sulla soglia di quel 1855, quando stampò a sue spese, a Brooklyn, Leaves of Grass, «una miscela di Baghavad Gita e New York Herald», secondo la spietata sintesi del guru, Ralph Waldo Emerson, aveva già vissuto una decina di vite.
Nato a Long Island nel 1819, secondo dei nove figli di un falegname, questo Gesù Cristo della lirica americana non è una blasfemia: la poesia di Whitman è greve di afflati cristologici lascia la scuola a undici anni, impara il mestiere del tipografo, tenta l'arte del legno, legge Shakespeare, Goethe, Dante e Omero per affilare la penna, dà ripetizioni estive, fonda giornali (il Long Islander, che sfiorisce dopo una manciata di mesi), scrive sui giornali. Grazie a un giovane (33 anni) ricercatore della University of Huston, Zachary Turpin, sappiamo che Walt, nel 1852, poco prima di pubblicare il libro che avrebbe cambiato irrimediabilmente la letteratura from Usa, voleva fare i soldi come autore di «fogliettoni», di romanzi a puntate. «Whitman ha scritto un romanzo breve, Life and Adventures of Jack Engle. Fu pubblicato in forma anonima, in sei puntate, dal 14 marzo al 18 aprile, su un giornale di Manhattan, il Sunday Dispatch. Da allora, fu dimenticato», scrive, didascalicamente, il brillante speleologo di cimeli bibliografici. Il quale ha scovato l'opera tra i gangli della Biblioteca del Congresso di Washington DC, l'ha confrontata con alcune note whitmaniane, e, visto che i dati corrispondono, ora, 165 anni dopo (e a 125 anni dalla morte di Walt), la mostra al mondo. In modo molto americano e democratico. Cioè, gratis.
Il testo, con l'importante repertorio di studi attorno, è scaricabile dalla Walt Whitman Quarterly Review. La scoperta, in effetti, è clamorosa: è come se trovassimo tra gli scaffali dell'Ambrosiana di Milano un romanzo erotico di Alessandro Manzoni. E qui si tratta, ancor più, di una icona tutta americana, tradotta anche al cinema (chi non si ricorda Robin Williams che attacca dal pulpito de L'attimo fuggente, «Oh capitano! mio capitano!», che è la poesia di Whitman per la morte di Lincoln?). Vanno dette, però, un paio di cose. Primo: che Whitman scrivesse prosa si sa. Nel 1842 tenta il «romanzetto» con Franklin Evans, or the Inebriate, poi costella le sue collaborazioni giornalistiche di racconti e raccontini (un assaggio della prosa whitmaniana è nel delizioso volume edito da Donzelli, Come coccole di cedro). Secondo: a Whitman «queste composizioni primitive e infantili» non piacevano («il mio vero desiderio è di vederle cadere silenziosamente nell'oblio»). E poi, a dire degli intenditori non sono neppure belle («non sa scrivere in prosa», diceva Knut Hamsun; concetto ribadito da Cesare Pavese il quale parlava di «patetici tentativi di narrativa»).
Il bravo Turpin, però, non intende tarpare le ali al genio whitmaniano né scalfire il profilo marmoreo dell'Orfeo d'America. «Jack Engle è ricco di brani lirici, a volte ironici, e popolato da personaggi eccentrici», scrive lo studioso. Specificando: «Lettori che hanno familiarità con David Copperfield o Casa desolata riconosceranno che si tratta di un testo dickensiano; in effetti Jack Engle è influenzato direttamente dai romanzi di Dickens». La storia, ambientata «in questa grande Città», cioè in una New York rapace dove l'uomo è lupo per il proprio amabile prossimo, parte «puntualmente a mezzogiorno» (così l'incipit), «quando il sole plana potente sul marciapiede di Wall Street», nello studio di un avvocato. Pardon, «nel sancta sanctorum del maestro assoluto» della legge, Mr. Covert, un tipo «piuttosto alto, dalle spalle ampie, con una faccia pallida, squadrata e rasata di fresco» e «un certo sguardo satanicamente bigotto». Il torvo avvocato vuol fare l'affare spillando i soldi all'orfanella da lui assistita: un cliché più dickensiano di così non c'è. La vicenda costruita assemblando sketch più che reggendola su una ragionata architettura narrativa ostenta diversi volti pittoreschi, tra cui spiccano due donne, Violet («questa donna con il nome di un fiore fragile e pudico era alta e giunonica, grossa come un uomo») e Inez, la «ballerina spagnola» abituata «a dipendere dai favori del pubblico» perciò «precocemente sagace».
Il resto, appunto, è un romanzo d'appendice, che nulla toglie o aggiunge al poeta onnivoro e poligrafo («un poeta adattissimo, direi peculiare, a venir letto esclusivamente in antologia», scrive il poeta Alessandro Ceni, che per Feltrinelli ha tradotto «la prima edizione del 1855» di Foglie d'erba), la cui prosa più riuscita è proprio l'intro a Leaves of Grass, quando declama con la foga del profeta, del colono e dell'eccitato avventista : «gli americani di tutte le nazioni d'ogni tempo sulla terra posseggono probabilmente la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti stessi sono essenzialmente il poema più grande».
A che serve allora questo ritrovamento, oltre che a ingolosire gli studiosi? «A rendere più complessa l'idea che abbiamo di America», dice il baldo Turpin. «Quella strana America» whitmaniana, chiosava Giorgio Manganelli, così pieno di wit europeo, «che oscilla tra il film dei marines e la verbalità mitica di William Blake».
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