Zelfa con la foto del fratello: «Lo portarono via, fu la fine»

Oggi ha 83 anni, ma ricorda tutto del giorno in cui i partigiani titini fecero irruzione nella sua casa

Nostro inviato a Gorizia

«Non ho niente contro gli sloveni. So che anche tra loro ci sono brave persone. Ma dentro, qui, nello stomaco, mi è rimasto come un grumo freddo. Di rabbia. Di rancore. A Gorizia il confine ormai non c'è più. Se vai alla stazione trovi solo un segno per terra. Una piastra d'acciaio con su scritto che di qua è Italia e di là Slovenia. Si va e si viene senza documenti. Però, quando li sento parlare per strada, mi sorprendo a dire: “va' a casa, va' a casa tua”. Qualche volta mi arresteranno».
Zelfa Mariani ha 83 anni, ma l'energia e la tigna di chi non ha alcuna voglia di rassegnarsi. Cuffia di lana in testa, un paltoncino con il collo di pelliccia, Zelma è venuta in Prefettura a cercar notizie di suo fratello Ezio. Nell'elenco stilato dalla storica slovena Natasa Nemec, e messo a disposizione delle autorità italiane, il nome di Ezio dovrebbe esserci. «Lo presero che aveva 19 anni, pensi. Accadde in via Carducci, in pieno centro. Lui usciva da via Favetti e andò a sbattere contro un gruppo di partigiani titini che stavano portando via una colonna di poveretti arrestati. Lo videro e lo acchiapparono. Inizialmente lo portarono nella prigione di via Barzellini. Ma dopo qualche giorno, il 5 maggio del '45, lo caricarono su un camion, con altri 36 sventurati, e lo trasferirono a Trieste. Mio padre Gustavo era morto tre anni prima, a Lubiana. Dunque Ezio, come orfano di guerra, era rimasto a casa. Così è andata. Che un giorno era con noi, e il giorno dopo non c'era più. E io oggi mi contenterei di andare a portargli un fiore, e a raccontargli com'è andato il seguito, se solo sapessi dove andare». Zelfa oggi si è portata appresso la foto del fratello: una foto ovale, come si usava una volta. Lui è ripreso di profilo. Un bel giovane dall'aria spavalda, pieno di vita. Giù anche lui, nelle fosse dei titini, fra i martiri di una vicenda che «gli italiani hanno dimenticato troppo presto, perché a Roma - sospira Zelfa, ma gli occhi le fiammeggiano - faceva comodo così. E a toccare l'argomento delle foibe, ai comunisti non faceva piacere, si sa. Mia madre ci morì. Si spense giorno dopo giorno, e son passati più di trent'anni. Ma fino all'ultimo giorno ha continuato a sperare. Se qualcuno bussava alla porta balzava sulla sedia e mi diceva: Zelfa, corri ad aprire, è Ezio che è tornato».
Rina Maniacco, che oggi ha 70 anni, ne aveva 9 quando le portarono via il padre. «Fu lo stesso giorno del compleanno della mamma, il 6 maggio del '45. Mario Maniacco si chiamava il papà. Aveva 39 anni e faceva l'infermiere all'ospedale psichiatrico di Gorizia. Ma il suo sogno era quello di aprire una fabbrichetta, un piccolo calzaturificio. Era stato ciabattino, da giovane, e quella passione gli era rimasta addosso. Il giorno che lo presero aveva addosso 80mila lire, tutti i risparmi di una vita. In casa non si fidava a tenerli. Quando vennero a dirglielo, mia madre cadde per terra, svenuta. Lei nell'anticamera. Io in cucina.

Ma mi ricordo il rumore di quel tonfo come fosse oggi. Per giorni lo tennero negli scantinati di un palazzo di via Roma. Riuscimmo a vederlo. “Sale, portatemi tanto sale”, ci disse, mentre i partigiani di Tito ci spingevano via. Poi, più nulla».

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