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Islamocomunismo

Il 7 ottobre e Gaza hanno svelato la convergenza tra sinistra e fondamentalisti. Cosa leggere per fomentare l'ostilità verso l'Occidente: da Fanon a Said fino ai teorici del relativismo morale

Islamocomunismo

Il 7 ottobre e la guerra di Gaza hanno illuminato una convergenza che per anni si è preferito fingere inesistente: la saldatura tra una sinistra post-marxista in ansiosa ricerca di un nuovo soggetto rivoluzionario e l'islam politico in cerca di legittimità e rappresentanza nelle società occidentali.

Le piazze Pro Pal e i campus universitari hanno realizzato ciò che la teoria aveva solo suggerito: la grammatica della decolonizzazione è stata applicata alla violenza jihadista. Così il terrorismo diventa un capitolo della lotta anticoloniale mentre la teocrazia è interpretata come una riappropriazione culturale dopo il dominio occidentale. Su questo sfondo nasce l'islamocomunismo: non un'ideologia compiuta, ma l'incrocio paradossale tra "rivoluzionari" rimasti senza popolo e teocrati rimasti senza potere.

Da un lato, la sinistra, dopo aver perso il proletariato, è alla continua ricerca di un nuovo "oppresso" da magnificare e arruolare come bacino elettorale; dall'altro, l'islam politico, fallito nei propri Paesi, scopre in Occidente la possibilità di avanzare usando le parole stesse dei suoi critici. È quindi un matrimonio d'interesse: la sinistra offre linguaggio, tribunali morali, sdegno prefabbricato; l'islam politico offre voti, coesione comunitaria, una disciplina che i progressisti non vedono da mezzo secolo.

A "legittimare" la convergenza c'è la biblioteca dell'antioccidentalismo. I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, con la prefazione incendiaria di Jean-Paul Sartre, invita all'emancipazione dei Paesi colonizzati anche attraverso la lotta armata. Orientalismo (1978) di Edward Said rende ogni critica all'islam un "reato" coloniale. Quasi infinita la lista degli autori che puntano a delegittimare moralmente il sistema capitalistico. C'è chi lo psicanalizza (Slavoj iek), chi ne smonta il linguaggio come strumento di potere (Judith Butler), chi teorizza un futuro di crescente diseguaglianza (Thomas Piketty). Aggiungiamo una legione di strutturalisti secondo i quali non esiste la verità ma solo interpretazioni. La sinistra identitaria ha così usufruito di una scorciatoia teorica: se l'Occidente è colpevole per definizione, chiunque lo attacchi diventa protagonista della liberazione. Anche quando porta in tasca l'agenda dei Fratelli Musulmani.

Sul versante islamista, il volto presentabile è stato a lungo quello di Tariq Ramadan, poi sommerso da grane giudiziarie (stupro). Islam e libertà (2008) offre una versione edulcorata dell'islam politico, compatibile con il vocabolario progressista. Dietro la facciata, però, resta l'ombra di Sayyid Qutb, il teorico dei Fratelli musulmani e l'autore di Pietre miliari (1964). Alla base, c'è la convinzione che l'Occidente non sia riformabile e debba essere ricondotto alla teocrazia islamica.

Alcuni studiosi, loro malgrado, sono diventati strumenti e hanno fornito involontariamente argomenti all'islamocomunismo. Olivier Roy, in varie opere, sostiene che l'islam politico fallirà perché nessuna religione può resistere alla secolarizzazione. "Tanto vale arruolarlo" è la conclusione indebita. Banlieue de la République (1987) di Gilles Kepel ha descritto con largo anticipo la vicinanza tra attivismo islamista e attivismo progressista nelle periferie francesi. Paradossalmente, è stato trasformato in un manuale di mobilitazione elettorale. Perfino Alain de Benoist, faro della Nuova destra, fornisce, in diverse opere, un lessico anti-liberale che, a sinistra, viene riciclato con noncuranza, spesso ignorandone addirittura l'origine.

In realtà, la logica interna dell'islamocomunismo non è certo ferrea. Tutto va bene purché sia utile a colpire il bersaglio finale: l'Occidente, il capitalismo, il mercato, lo Stato laico, la libertà individuale, il Diritto e non i diritti. In poche parole, il nostro stile di vita, costato secoli di suicidi politici, scontri fratricidi e fiumi di sangue.

Il 7 ottobre ha rivelato tutto ciò senza più veli. Le piazze con bandiere Lgbtq+ accanto ai simboli di movimenti che, nei Paesi islamici, li perseguiterebbero; i comunicati universitari che scambiano il jihad per una guerra di liberazione; le Ong che trasformano una guerra tragicamente reale in atto d'accusa metafisico contro l'Occidente. Gaza non ha creato la convergenza: l'ha consacrata, fornendo un rito fondativo.

L'islamocomunismo non è una fase storica: è un errore strutturale. Una convergenza nata dal risentimento e nutrita dall'alibi morale, incapace di produrre un solo principio universale, un solo modello di convivenza. Non ha futuro perché non ha forma. Se dovesse conquistare l'anima dell'Occidente, la sua vittoria sarebbe anche la sua fine. Chiaramente l'islam non può convivere con la sinistra arcobaleno, anzi: la cancellerà un attimo dopo essere arrivato al potere.

Il filosofo Roger Scruton chiamava oicofobia l'odio per se stessi, per la propria Storia, per la propria tradizione. L'Occidente, quindi, non rischia di essere sconfitto da questa miscela inconcludente sul piano dei principi ma aggressiva sul piano dell'azione. Il pericolo non è la forza dell'islamocomunismo, ma la debolezza di chi lo tollera per paura di essere chiamato reazionario. Finché durerà questo ricatto morale, la crepa continuerà ad allargarsi. Ma ogni crepa, alla fine, cede.

E quando cederà, non cadrà l'Occidente: cadrà l'illusione che questa alleanza senza fondamento potesse davvero reggersi. Non verrà il mondo degli uguali, che di per sé sarebbe un incubo. Verrà il mondo degli uguali nella sottomissione, che è pure peggio.

La storia non perdona gli equivoci. Nemmeno questo.

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