Politica

Il ’77 di Mike Bongiorno: «La rivoluzione della tv»

La telefonata è arrivata direttamente dal Cavaliere. E quando il più celebre conduttore di quiz della tv italiana ha alzato il ricevitore è rimasto per un attimo sorpreso: «Mike! Non possiamo mica dimenticarci del 1977! Ricorre il trentennale di un capitolo di storia, non può passare senza che lo festeggiamo. Voglio organizzare una cosa in grande, a Milano, dimmi solo di sì e mi metto subito in moto!». Chi si fermasse a questo racconto resterebbe, se non altro, interdetto. Perché in questi giorni si sono rievocate tantissime date del trentennale più difficile della storia italiana: sono usciti decine di libri, ci sono già state manifestazioni e contromanifestazioni – ad esempio - per celebrare o censurare la cacciata di Lama da La Sapienza. E si è parlato tantissimo del Settantasette politico, di quello culturale, degli anni di piombo, del terrorismo e delle sue vittime, del tempo in cui l’Italia rischiava la guerra civile. Eppure quello di Mike Bongiorno e Silvio Berlusconi è un «altro» Settantasette, un Settantasette tutto particolare, questo.
Scusi, dottor Bongiorno, a cosa si riferiva Berlusconi, quando parla di un vostro anniversario?
«Ad un incontro».
Che lui definisce «storico».
«Per noi lo fu senz’altro».
Dove avvenne?
«Al ristorante “44”, uno di quelli in cui in quegli anni a Milano si andava per celebrare le più solenni colazioni di lavoro. Era un giorno di ottobre».
E chi partecipò a questo storico pranzo?
«Ah, ah, ah... A dir la verità solo io e lui. E fu la prima volta in cui mi illustrò la sua proposta: “Lascia la Rai e vieni a lavorare per me”».
Ma nel 1977 Mediaset non esisteva ancora!
«Non esisteva nemmeno Telemilano, se è per questo. Non esisteva nulla. Berlusconi all’epoca aveva un canale via cavo che si vedeva solo a Milano due».
E che cosa rispose Mike alla proposta di lavorare per una tv «condominiale?».
«Dissi sì».
C’è quasi da non crederci.
«Se lei potesse vedere il Berlusconi che incontrai io quel giorno ci crederebbe molto più facilmente».
Cosa sapeva di lui?
«Ancora poco o nulla, solo che era un imprenditore di successo: ma poi mi ritrovai di fronte una persona che parlava come me, pensava come me, aveva un senso tutto americano del fare impresa, che qui in Italia lo rendeva praticamente una mosca bianca».
Quale fu il momento indimenticabile del colloquio?
«Facile a dirsi. La trattativa economica. Io ricordo sempre questa scena, e ovviamente non ci crede mai nessuno».
Cosa accadde?
«Tra me e me pensavo: per correre un rischio così deve propormi un bella cifra. E mi ero anche fatto due conti: alla Rai, in un anno, mi davano più o meno 26 milioni di lire lordi».
A quanto corrispondevano, rapportate alla cifre di oggi?
«Meno di quanto non prendesse un caporedattore delle cronache sportive! Ed io ero uno che faceva già dieci milioni di ascoltatori, uno che in tv aveva fatto tutto...».
E allora torniamo al pranzo del «44»: siete davanti ad un piatto, lei sta lì, con la sua busta paga in testa, e Berlusconi...
«Mi guarda e improvvisamente mi fa: “Io avrei pensato a seicento...”».
Seicento?
«Bravo, è quello che gli chiedo io: “Seicento che?”».
E lui?
«Mi fa: “Milioni, ovviamente!”».
E lei?
«Ero così incredulo che gli chiedo ancora: “Oddio, e per quanti anni di contratto?”».
E Berlusconi?
«Mi fa: “Per un solo anno, ovvio. Ma poi potrai arrotondare con le televendite e con gli sponsor”».
Così lei accettò, per spirito di avventura.
«Senta, non amo quelli che fanno le anime belle. Accettai perché era un’offerta che solo un matto avrebbe potuto rifiutare. E poi perché lui aveva avuto l’intuizione geniale che avrebbe cambiato tutto, e quel giorno me lo disse chiaramente».
Quale intuizione?
«Semplice: la pubblicità».
Però esisteva già...
«Ma va là! Fino ad allora si andava a letto con Carosello, si giravano gli sketch e il nome del prodotto andava solo in coda. La pubblicità era un appannaggio di pochi, grandi gruppi, il simbolo di un’Italia austera e allergica ai consumi, in cui si vendeva poco e male».
Vuole dire che quel giorno avete portato la pubblicità in Italia?
«Beh, in qualche modo sì. Pensi che i primi tempi arrivavano gli inserzionisti, e dicevano che erano perplessi del fatto che io parlassi in trasmissione del prodotto!».
Perché?
«Volevano messaggini scritti, sceneggiati, convenzionali, separati dal quiz. Io invece non leggevo nulla, ne parlavo alla mia maniera».
Però poi accettarono.
«Proprio perché c’era uno come Berlusconi. Ad un certo punto, quando iniziarono ad arrivare dubbi e proteste Silvio mi disse: “Continua così Mike, tu sei la televisione: come fai tu, fai bene”».
I risultati economici ci furono subito?
«Fu un terremoto! Pensi che uno dei nostri primi sponsor, Rovagnati, scoprì che ogni volta che andavo in onda, il giorno dopo le massaie assaltavano i supermercati per comprare i suoi prosciutti. Hanno costruito i loro stabilimenti con i nostri spot!».
Le ha fatto un monumento, Rovagnati?
«Ah, ah ah... Macché, si è comportato da ingrato. Ma intanto noi avevamo creato un mercato, il mercato produceva fatturato, e il fatturato creava nuova pubblicità. Glielo ho detto, era una vera ri-vo-lu-zio-ne. Presto lo diranno anche gli storici».
Fino al 1980, quando sono iniziate le trasmissioni in chiaro, come avete lavorato?
«In segreto».
Ovvero?
«Beh, io ero letteralmente clandestino. Stavamo costruendo un canale ex novo, entravamo negli studi alle dieci del mattino e uscivamo alle dieci di sera. Berlusconi era sempre lì, guardava, giudicava, portava le pastarelle... Nel 1980 abbiamo iniziato a fare sul serio ed è stato un terremoto».
Ma alla Rai che cosa le dissero?
«Il presidente era Emanuele Milano, che mi sconsigliò vivamente. Il funzionario che sovrintendeva ai miei programmi scosse la testa: “Lei lavora nella tv di Stato, e se ne va a lavorare per un palazzinaro che non capisce nulla di televisione”».
Mi dica il nome!
«Guardi, non me lo ricordo, giuro. Ma tutti in Rai pensavano la stessa cosa».
(Indico una foto di Berlusconi e di Bongiorno sul muro). Questa di quand’è?
«Ah, credo che sia la presentazione de La Cinq... Guardi la dedica».
C’è scritto... «Come eravamo belli».
«Sì, però subito dopo ha cancellato e ha aggiunto: “Come siamo belli”. C’è tutto lui. Io e Silvio siamo amici veri, è il padrino di mio figlio».
Quando lei nel 1994 ha invitato a votare Forza Italia dicono che si sono spostati milioni di voti...
«E pensi che io non ho mai finito di rimpiangere il giorno in cui ha lasciato l’azienda! Finché era qui, si occupava di tutto, dal taglio di capelli della segretaria, ai grandi show. Se avevi un problema, andavi da lui con un appunto buttato giù su di un pezzo di carta e te ne uscivi dall’ufficio con un programma».
Anche lei era scettico come Letta su Forza Italia?
«Macché, io ero sicuro che avrebbe vinto...».
Quando vedremo Mike senatore a vita?
«Ehhhhh...».
Che vuol dire?
«Senta, me lo chiedono sempre, ma io non ho visto mai nulla di concreto, evidentemente non piaccio a tutti. E poi...».
E poi?
«Sa, l’idea di dover stare tre giorni a settimana a Roma mi spaventa. Sto per cominciare la nuova serie de Il migliore, la televisione è la mia vita...».
Però «senatore Mike Bongiorno» suona bene...
«Vede come siete voi giornalisti? Decide il Capo dello Stato, no? Fino ad allora tutto il resto sono solo chiacchiere!».
Cosa manca nella sua carriera?
«Solo una cosa: vorrei tanto una laurea honoris causa. Sono 50 anni che faccio pubblicità è non c'è una facoltà che si decida a darmi la laurea in questo campo. L'hanno data a Vasco Rossi e a Valentino Rossi, ma nessuno ha mai pensato a me».
Sta pensando a un programma nuovo per ottobre?
«Vorrei tanto tornare a fare i quiz classici, quelli di una volta, come Rischiatutto, dove c'è un campione che si ripresenta la settimana dopo e dove il montepremi finale è importante».
E il programma sulla storia della Tv in Rai non lo farà mai?
«Me l’hanno chiesto quando c’era Meocci. Poi, andato via, nulla, nessuno mi ha più ricercato».
Un’ultima cosa: ma la festa al «44» la farete, poi?
«Silvio avrebbe voluto farla anche subito. Però c’è un piccolo particolare: quel ristorante non esiste più. Da qui ad ottobre dovremo trovare un altro posto...

eh, eh, eh!».
Luca Telese

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