Cultura e Spettacoli

Adesso il videogame è un pezzo da museo

A Bologna è nata una grande "memoria storica" che tutti possono consultare. Mezzo secolo di svago e di costume

Adesso il videogame è un pezzo da museo

Ivo Germano

Bologna - L’Eldorado c’è ed esiste sotto forma di Bengodi sopraffino e «Paese dei balocchi» videoludico, dove non è necessario scegliere se essere Pinocchio o Lucignolo. A Bologna il messaggio è forte e chiaro: meglio «videogiocare», pratica ben più seria dei rigidi intellettualismi e profuse cerebralità, grazie al monumento alla memoria high-tech che ti cattura, non appena varchi la soglia dell’Archivio Videoludico della Cineteca di Bologna (www.cinetecadibologna.it/archivi/videoludico/games).

Un catalogo di 800 giochi che attesta come il futuro c’era già stato ed era possibile viverlo nel gnamgnam del PacMan, nel baffone proletario e pop di Super Mario Bros, soprattutto, in versione 64 Ds. Lara Croft, scolpitissima e decisa a non inchinarsi a nemici e insidie. Icone, miti, divi e dive che affollano, cadenzandola, una memoria bambina e adulta. Avevano ragioni da vendere i Frankie goes to Hollywood, a invitare al Welcome to the pleasure dome, perché, cari quarantenni sovrappeso e pencolanti in uno strato medio esistenziale, stiamo parlando di noi.

Le nostre «mille e una notte» e giorno di gioco, metà orgia di colori e azioni, metà orda di facce, corpi, colpi, schemi di gioco, livelli da superare, tuttavia, non sono un testo nostalgico, ma un giocoso test della memoria. Un diploma e una medaglia del tempo del gioco che diveniva metafora di un preciso approccio alle cose: non demonizzante la tecnologia, al contrario, complice e delicato comporre e scomporre storie, personaggi, situazioni, contesti.
A pochi metri dalla nuova sede del Dams, simbolicamente si registra un passaggio di testimone fra quel Dams, magnete di geniacci e squinternati studiosi raffinatissimi di cinema e teatro e sbomballati da tutt’Italia, e la solida e trasversale presenza di prodotti culturali che hanno determinato uno stacco «generazionale». Il canto profondo del videogame, cioè l’ardore e la brama per una tecnologia e un’economia della conoscenza, non provando l’esigenza di trasformare in feticcio. Il videogame, tale è il senso dell’Archivio, è stata l’iconografia ufficiale del viaggio di una generazione. Tempo breve per la storia, ma eternità assoluta in stile parallelo fra tecnica e cultura.

È una lunga storia, di invenzioni, trucchi e curiosità, mescolanza di segni, alchimia visuale e sottolineatura di un mondo assemblato prima a villaggio e ora a ragnatela cosmica, dove scaricare, condividere, blabla. L’altro ieri significò meraviglia, passione artificiale e nuove toponomastiche domestiche e professionali: Commodore, Sinclair, Atari, Msx, da parte di argonauti inconsapevoli che trovavano asilo e riparo in circuiti e score da frantumare. Facendo la cosa giusta, come recitava lo slogan della Nike, il videogame imponeva l’architettura aperta, nonché inedita estetica e innovativa prossemica, al tempo stesso, meditando sui necessari dubbi dell’identità di realtà e fantasia.

Dall’aurora videoludica del mito originario degli Intellivision, dalla schermata inconfondibile di Space Invaders agli Atari 2600, Nintendo 8-bit, Mega Drive. Fortunatissimo chi con le console di gioco apprese regole e frame del linguaggio del videogame. Non solo perché, come cantavano The Buggles, «video killed the radio star», ma anche perché il medesimo video si donava al cinema, alle arti visive e alla disciplina del loisir. Disciplina specifica della «terra di mezzo» del videogame, non fosse altro che per gli innumerevoli titoli debitori e/o ispirati al cinema: Il Padrino e Fantasia, Le Iene e La marcia dei pinguini, nonché delle fiction e dei serial, da Lost ad Alias e del fumetto con Diabolik e l’orbe terracqueo della Marvel.

Insomma, il real world della cuccagna digitale dalla A alla Z, senza se e senza ma. Non lo diresti, se solo ti fermassi a contemplare l’architettura minima, simil-Lego, dell’edificio, spazio fisico che, presto prestissimo, cede il posto alla spirale e alla cornucopia della vera e unica ragione sociale del XX secolo: la cultura videoludica, il cui avvio, sotto forma di cartuccione, lo si deve a un compìto uomo di scienza, William Higinbotham, il quale inventò il gioco «Tennis for two»: un esercizio di stile, più che una piattaforma. Fingere bene, perché sapevamo di avere fame di nuovi giochi, vere e proprie architetture del senso sociale del divertimento. Anno Domini 1977, modello Commodore, cioè il primo schermo gioco antesignano della ricerca dionisiaca della Rete, anticamera alla metabolizzazione di un canone di gioco inedito e inaudito. Trasposto nelle sale da giochi al mare, fra spume e bigbabol, gel e pelle scorticata dal sole. Fossi figlio di operai, maestro elementare, qualcuno non importava nulla, l’importante era saperci fare con joystick e affini.

Sgattaiolando, di duello in duello, come il Tron della Disney. Chinare il capo sotto la lancinante pioggia post-nucleare del replicante di Blade Runner, ribaltando il significato del girotondo: non più tutti giù per terra, ma tutti su nella terra del gioco. Non a caso, una rassegna di film è il rendiconto del peso determinante dell’immaginario videoludico. Reale e non virtuale, immaginifico e mai liquefatto da Blade Runner a La notte dei morti viventi, da Alien a La principessa Monokake. Alfabeto della dimensione ludica che non stona con un magnifico volume rilegato di Topolino anno 1935 che ti spinge a pensare che, forse, è giunta l’ora di farla finita col celeberrimo distico del replicante, cioè dell’«ho visto cose che voi umani», etc., etc. Stavamo vedendole, anche se nessuno ce lo diceva. Vivendole, anche se non vi era nessuna indicazione in merito: bastava e basta schiacciare il tasto «on» e... sarà sempre la favola del videogame. Sensazione meravigliosa, simile a quando una festa di compleanno è pienamente riuscita, tanto che saluti e ciao ciao, pacche sulle spalle, abbracci, scambio d’indirizzi mail e vorticosi volteggi di palmari paiono infiniti.

Ha ancora senso viaggiare. Meglio continuare a viaggiare. Scusate tanto, ma mi attendono a casa impazienti. Motivo? La cena? Acqua. Un cinemino con la consorte? Acqua. Vabbè vi svelo il segreto: mi attende la riproposizione della finale vintage Germania-Olanda dei mondiali del ’74.

E stavolta Johann Crujff alzerà la coppa del Mondo, almeno così sento e spero, Psp permettendo.

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