Cè speranza. Poca perché sulluomo non è che si possa fare molto affidamento, ma qualche speranza cè: «Mi vergogno di essere italiano. Io me ne vado, non voglio più stare in questo paese». Lo ha dichiarato, fronte una selva di microfoni e telecamere, Fabrizio Maria Corona, fotoreporter genere «cash and carry» e già ospite delle patrie galere, esperienza poi raccontata in uno scartafaccio dallovvio titolo «Le mie prigioni» e cantata a ritmo di «rap» in «Corona non perdona» («Qui in Italia si sclera, dove linvidia degli altri ti porta dritto in galera»). Corona è anche ben altro, ovviamente, ma niente che ci possa indurre a stimarlo come uomo e come italiano, per cui se decidesse di far fagotto e traslocare oltrefrontiera, la Patria non potrebbe che essergliene grata. Non tutta, perché ce nè una parte che lo ammira, che lo ha elevato a modello di vita (aggiungere «e di pensiero», sarebbe sfidare il ridicolo). Non si spiegherebbero altrimenti quei mille, duemila euro con i quali taluni organizzatori di «eventi» - linaugurazione di una pizzeria, la sagra del tamburello, cose così - compensavano la sua presenza, debitamente preannunciata sulle locandine, «Tra il gentile pubblico». Ma quel genere di pubblico, di bocca buonissima, fa presto a consolarsi e a raccattare nella sentina della società qualche altro furbacchione da idolatrare.
Fuor di dubbio che Fabrizio Corona - «Fabri» per i fan - interpretasse con diligenza quella figura vanagloriosa, sciampista e plebea, che la tivvù dintrattenimento, la prevalenza del gossip nellinformazione e lanalfabetismo di ritorno hanno portato più che prepotentemente alla ribalta dei costumi. Nellanimo dogni meschino guaisce infatti un Corona, luomo che se la tira da bello e spietato, che con uno schiocco di dita fa accorrere ai suoi piedi, per poi debitamente strapazzarle, turbe di Ubalde; che si muove a suo agio nella periferia del jet set; che sfreccia contromano a bordo di Ferrari e Bentley e Lamborghini; che irride e sfida («Vieni fuori che ti spacco il muso») chi lo riprende; che fa del teleobiettivo una magica e generosa slot-machine; che dà del tu al famoso calciatore, che manda a quel paese il rampollo duna dinasty dantico nome, che inguatta i soldi a San Marino. Che fa una bella vita, forte e virile, proprio come quello della pubblicità, luomo che non deve chiedere mai. E sarebbe un individuo di tal fatta a vergognarsi dessere italiano, invece di baciare la terra che ha consentito a un paparazzo di assurgere alle vette della popolarità da rotocalco (e del benessere)? Noi, nel caso, ci vergogniamo daver per connazionale una simile imbarazzante macchietta.
In questultimo dei processi a suo carico, lavvocato Lucibello ha ammesso che i comportamenti di Fabrizio Corona «possono essere criticati anche in modo forte». Non esitiamo a farlo. Nella condotta di «Fabri» troviamo infatti lintero campionario di ciò che moralmente e culturalmente può risultare disprezzabile. Prima fra tutti larrogante, boriosa indifferenza alle regole, cui inevitabilmente segue la noncuranza per quella integrità danimo che rappresenta il tessuto connettivo duna società detta civile.
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