Milano - Ventidue artisti alla casa di Giovanni Testori, a Novate, e tra loro nessun «testoriano». Questo è Testori. Non è necessario essergli affini per forza. Basta lui.
Ma se questo è Testori, niente di più intollerabile di una bella foto in bianco e nero, di un «come eravamo», come quelli che la sera andavano in via Veneto: tutti giovani giovani, la bocca che sa di latte, il colletto stirato dalla mamma, gli abiti senza moda, vecchi anche appena comprati, l’ideologia giusta. Una bella foto della meglio gioventù come piace alla lagna sessantotta.
Di che cosa parlavamo, tutti stretti intorno a lui? Perlopiù di porcherie. Avessimo parlato sempre di letteratura o di teatro staremmo tutti in manicomio o a San Vittore. Di letteratura e di arte non si parla, mi fa un giorno il Giovanni, vedendo che sono un po’ troppo intellettualino, un po’ troppo fiorentino e cruscante: la letteratura e l’arte si fanno, e basta. Le chiacchiere le lasciamo alle signore che si trovano alle cinque del pomeriggio per il tè al Sant’Ambreus. Per questo, da persone ragionevoli, abbiamo passato ore, lui e io, a inventare vicende pornografiche complicatissime ispirate alla faccia del cameriere che serviva il crodino e a quella della grassa cassiera. O alle vicende più fetide (e inventate di sana pianta) relative alla vita di cardinali, rettori d’università e papesse. Oppure si parlava male di tutti, democraticamente. Nessuno al mondo avrebbe dovuto salvarsi.
Quando la sera andavo a cena dal Giuàn spesso, per non dire quasi sempre, mi fermavo lì a dormire. In quelle stanze, in quei bagni c’era l’odore del pulito allo stato puro, senza altri odori, né violetta né cinnamono.
Mio padre era un uomo mite. Quando gli dissi che mi fermavo spesso a dormire in casa Testori, sapendo che il Giuàn non condivideva la mia passione per il sesso femminile, una volta disse solo: «Stacci attento». Figurarsi.
Via Piave numero 21 era l’indirizzo della casa padronale, quella che dominava le «Officine Tessili F.lli Testori». Una vecchia casa lombarda, di quelle che a volte incontri in certe schegge di racconti gaddiani, e quando le trovi lì ti sale il groppo alla gola, ci scappa la lacrimetta.
Una casa lombarda piena insomma di struggimento, di storia, di passione di un imprenditore per i suoi operai, tutti un po’ figli. E quando, sotto Natale, il Giovannino si vantò col figlio di un operaio perché lui, essendo il padroncino, aveva ricevuto più regali, e quel bambino si mise a piangere, il papà lo portò, all’ora dell’uscita per la pausa pranzo, davanti al cancello, e a frustate - «tec!, tec!» raccontava Giovanni - lo obbligò a domandare scusa a tutti gli operai, uno per uno.
Questi imprenditori lombardi. Questi industriali che qualche anno dopo sarebbero stati descritti come il babau! Gli davano il lavoro, ai loro operai, gli costruivano la casa gratis, però erano fascisti e perciò nemici del popolo, mentre in via Veneto, uh! Quante case costruivano per gli operai. A quartierate. Moravia, poi, non ne parliamo.
Si rideva in quella casa: a crepapelle. Sotto lo sguardo di certi quadri tetri: cadaveri all’obitorio, pezzi di carne da macello e una bella galleria di facce deformi. C’era un artista, che non nomino, che lo zio Gianni doveva aver convinto che poteva diventare come Bacon, o giù di lì. Se eri un artista e finivi nelle sue grinfie dovevi starci attento: lì si capiva se eri furbo o no. Potevi obbedirgli e finire in un vicolo cieco oppure disobbedirgli (in nome della libertà dell’artista o di altre, simili fregnacce) e fare la figura dell’idiota. Potevi sbagliare in tutti i casi. Per non sbagliare ci voleva una forza da leoni, e un coraggio da leoni. Nient’altro.
Ma veniamo alle cose serie. Nella casa di Novate ci si sente, o comunque ci si sentiva. Per chi non avesse dimestichezza con il problema: la casa era hantée, ce staveno li spiriti. Una notte mi sveglio e sento, proveniente dalla stanza accanto, un bel gorgheggio sopranile. Giovanni non mi ha detto che nella stanza vicina c’è una cantante lirica abituata a esercitarsi alle tre di notte. Per un po’ la ascolto rapito, poi a poco a poco mi riaddormento.
La mattina dopo racconto il fatto a Testori e a suo nipote. Suo nipote mi spiega che quello che a me sembrava un canto era in realtà il rumore dell’acqua nelle vecchie tubature. Mi spiega anche che la stanza accanto, da dove mi sembrava di sentire una voce di soprano, semplicemente non esiste, ed è vero.
Ma lo zio Gianni scuote la testa: non solo, secondo lui, quella era la voce di un soprano che passò tanti anni prima da quelle parti (notizia mai confermata), ma esisteva anche la stanza: una stanza fantasma, come i suoi abitatori.
Questa stanza è la ventitreesima, quella che non troverete nella mostra, quella che tutti cercano. In quella stanza c’è Testori in carne e ossa, che voi potrete vedere solo nella risonanza che la sua imprevedibile personalità, il suo ambiguo fantasma avrà sull’opera di questi artisti che perlopiù non l’hanno nemmeno conosciuto.
E si badi che c’è anche una stanza con opere di Testori, proprio il salone delle vecchie risate dei corpi all’obitorio e delle storie col cameriere e la cassiera e i cardinali e le papesse. Ma questa non è una garanzia, non potete dire ah, ecco finalmente Testori, perché non è detto che in questi giorni lo zio (che aveva, ricordiamo, anche un lato homeless) abbia voglia di sostare proprio lì.
Caro, caro Giuàn, caro zio Gianni, caro prof, caro vecchio Crapa-Pelata. Se tu sei nel passato, allora ciao, io odio il passato e anche tu: non ci era mai piaciuto Proust, né a me né soprattutto a te (io poi ci ho ripensato, te lo confesso, ma io ho un’attenuante: sono molto più romanziere di te). Ma tu non sei nel passato. Sei morto, e va be’, ma sei anche ben presente. E rompi, anche, non lasci in pace i tuoi figli - tra l’altro, lasciati dire che essere tuoi figli è proprio una faticaccia.
Ma a proposito, l’hai spiegato ai tuoi ospiti di oggi che tu, di artisti, tanti ne hai lanciati nel firmamento e tanti ne hai seppelliti? Glie l’hai spiegato che quando si è ospiti in casa Testori bisogna essere alla sua altezza? Che bisogna essere sempre pronti a sentire il gorgheggio di un soprano, probabilmente strangolato o pugnalato cent’anni or sono nella ventitreesima stanza? Scommetto di no, perché secondo me sei sempre stato un bastardo.Del resto, questi sono fatti loro.
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