Stenio Solinas
nostro inviato a Venezia
Qualche mese prima avevano sparato a Martin Luther King, qualche giorno prima a Andy Warhol. Quel cinque giugno del 1968 fu la volta di Robert Kennedy, in corsa per le primarie del Partito democratico e, in caso di vittoria, come sembrava probabile, futuro presidente degli Stati Uniti. Da allora, lidea che il sogno americano potesse ancora definirsi tale, e non un incubo, scomparve sempre.
Era cominciato tutto a Dallas, con lassassinio in diretta di John Fitzgerald Kennedy, il fratello maggiore di Robert, e in appena cinque anni la spettacolarizzazione della politica e la società dello spettacolo erano divenute una cosa sola. Contavano la giovinezza e il fascino, la bellezza e il carisma, la capacità di vendere unimmagine, unidea, una candidatura, ma anche la popolarità che viene dal contatto e non dal distacco, dal mischiarsi e non dal sottrarsi, il bagno di folla democratico, lessere moltitudine e non solitudine. Sotto questo profilo, Bob Kennedy era perfetto e ci si cullò nellillusione che una morte in famiglia esorcizzasse una seconda possibilità, un tributo pagato e quindi saldato. Gli sparò uno studente di origine araba, Shiran-Shiran, nei corridoi delle cucine dellAmbassador Hôtel, mentre stringeva le mani di cuochi e camerieri, clienti e inservienti, fans.
In quel 1968 ci fu anche il massacro di My Lai in Vietnam, la morte, a opera della Guardia nazionale, di tre studenti di colore durante una marcia per i diritti civili, loffensiva del Tet e insomma per gli Stati Uniti fu anche la fine delletà dellinnocenza, quellinsieme di candore e onestà, buoni sentimenti e moralità, idea di missione e spirito di frontiera di cui a lungo si era nutrita e che aveva in qualche modo messo la sordina a ingiustizie sociali e discriminazioni razziali, malessere generazionale e crisi economica. Nulla fu più come era stato.
Bobby, il film di Emilio Estevez presentato ieri in concorso a Venezia, racconta proprio questo, lanno della speranza e lanno della fine delle speranze, lanno della politica vissuta ancora come un ideale e una passione prima che il pragmatismo e il cinismo da professionisti di un mestiere e non di una causa ne prendessero il posto. Lo fa con un film corale e con un cast sfavillante: Anthony Hopkins e Harry Belafonte, Demi Moore e Sharon Stone, Christian Slater e Helen Hunt, Martin Sheen e William H. Macy, Elijah Wood e Laurence Fishburne, Joshua Jackson... Ciascuno di essi disegna nellultimo giorno di vita del senatore assassinato, il ritratto privato di tante piccole Americhe colte fra i clienti e il personale dellAmbassador che di Robert Kennedy sarà la tomba, e che in quella candidatura si ritrovano oppure non si riconoscono, o più semplicemente le sono indifferenti. Cè la direttrice del salone di bellezza e coiffure (la Stone), moglie tradita del direttore dellalbergo (Macy), la cantante sul viale del tramonto (Moore) che dovrà esibirsi quella sera in onore del candidato democratico alle Presidenziali e il vecchio portiere dellAmbassador (Hopkins) che lì ha passato mezzo secolo della sua vita, il broker in crisi depressiva (Sheen) e la sua molto più giovane moglie (Hunt). Cè chi vede con fastidio le idee di Kennedy (Slater) e chi ne è un entusiasta supporter (Jackson).
Come in un Grand Hôtel, cè insomma gente che viene e gente che va, quotidianità fatta di amori, dolori, miserie, aspettative. Il ragazzo che teme di essere spedito in Vietnam arrangia un matrimonio di convenienza con unamica in modo da evitare il fronte, i giovanissimi attivisti di partito assaporano per la prima volta il paradiso artificiale delle droghe, limmigrato messicano soffre per il disprezzo dei bianchi, il vice cuoco negro ha imparato invece come conviverci... È la vita, insomma, di tutti i giorni in un giorno che non è come tutti e di cui conserveranno per sempre il ricordo.
Emilio Estevez è il figlio di Martin Sheen nonché il fratello di Charlie Sheen ed una tale sfilata di stelle testimonia unamicizia e una considerazione non indifferenti.
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