Milano - La guerra si combatte anche su Facebook. E non si tratta di videogiochi. Tra qualche giorno il Corpo d'Armata di Reazione Rapida della Nato di Solbiate Olona darà vita a un'esercitazione in provincia di Lecce. Millecinquecento uomini, cinque navi e dieci aeromobili. Ma non solo, tra armi, elemtti e marmitte ci sono anche chilometri di banda larga, mouse e computer. Una grande simulazione che potrebbe preludere uno spostamento, a breve termine, in uno scenario di guerra. E cosa c'entra Facebook? Ce lo spiega il colonnello Francesco Cosimato, responsabile comunicazione del Comando.
Colonnello, da dove nasce questo interesse dell'esercito per i social network?
Nei teatri di crisi i media di solito sono controllati dalla politica. A noi interessa parlare e raggiungere tutti. Faccio un esempio che non ci riguarda dal punto di vista pratico ma può essere esplicativo. In Iran gli ayatollah hanno tentato, senza riuscire, a bloccare Twitter per arginare la fuga di notizie. Nella nostra esercitazione uno stato ne invade un altro e gli organi di stampa del primo screditano il secondo. In questa nostra simulazione, per la prima volta, inseriamo anche l'utilizzo dei social network che, ormai, sono diventati uno strumento fondamentale, anche in guerra.
Per informare o per informarvi?
Per informare e informarci. Per avereun'idea di quello che pensa la popolazione e anche per raggiungerli con le nostre informazioni.
Durante l'operazione Iraqi Freedom i pc dei marines vennero bloccati per evitare fughe di informazioni strategiche. Voi applicate qualche blocco?
No, la maggiorparte dei nostri ragazzi usano Facebook e Twitter per tenere i rapporti con amici, famiglie e fidanzate. Al massimo possono scrivere che in Afghanistan c'è caldo... Ma non comunicano mai informazioni operative, ovviamente. Non si possono controllare tutte le comunicazioni come avveniva una volta con la corrispodnenza dei soldati. Nei mesi di preparazioni insegniamo ad avere una coscienza informativa che viene poi applicata anche all'utilizzo dei nuovi media.
Colonnello, come sono cambiati il suo mestiere e la guerra in questi ultimi anni?
Lo scenario è cambiato totalmente. Io, all'inizio della mia carriera, facevo l'artigliere e sapevo solo due cose: dove ero dislocato e in che direzione dovevo sparare. Un lavoro culturalmente molto più semplice di quello di oggi. Ricordo la prima esperienza col basco azzurro delle Nazioni Unite, in Somalia nel 1993, da lì è cambiato tutto.
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