Controcultura

Andreotti e Gorbaciov, l'amicizia dopo il disgelo

Il politico italiano capì subito la portata della Perestrojka. La sintonia con la Russia apriva scenari diplomatici importanti per l’Italia

Andreotti e Gorbaciov, l'amicizia dopo il disgelo

Nel giugno 1988, Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, venne intervistato da Arrigo Levi sui colloqui in corso a Mosca fra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il segretario del Pcus Michail Gorbaciov sui rapporti fra Est e Ovest. Richiesto di un giudizio sul leader sovietico, se ne uscì con una battuta lapidaria: «Dio ce lo conservi!», frutto, probabilmente, di simpatia umana e di realismo politico. Aveva conosciuto Gorbaciov a Mosca qualche anno prima, il 13 marzo 1985, quando, insieme al presidente della Repubblica Sandro Pertini, si era recato ai funerali di Cernenko. Il leader sovietico del quale poco si sapeva in Occidente e che era stato scelto a sorpresa ribaltando le previsioni favorevoli a Gromyko fece ad Andreotti, come si legge nel suo diario, «una impressione molto viva e volitiva» e concesse una «breve» udienza nel corso della quale il ministro degli Esteri italiano, pur nei limiti di un incontro di circostanza, toccò temi scottanti esprimendo le preoccupazioni italiane per lo stallo dei negoziati tra Mosca e Washington e accennando al problema della riduzione degli armamenti e dello smantellamento degli SS-20. Fu una prima presa di contatto positiva che Andreotti sintetizzò nel diario con una battuta significativa: «Non chiedo risposte, ma pongo un tema di studio. Gorbaciov ascolta con grande interesse ed attenzione visibile».

Si era nel pieno della guerra fredda ripresa di intensità da qualche tempo con l'installazione da parte della Nato di nuovi missili che intendevano essere una risposta agli SS-20 e con l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Tuttavia si era anche alla vigilia dei colloqui sugli armamenti che avrebbero poi trovato un punto di svolta nel vertice di Ginevra (19-20 novembre 1985) tra Reagan e Gorbaciov. Andreotti come si evince dalle scarne ma eloquenti note dei suoi diari e dal volume memorialistico L'Urss vista da vicino (1988) fu uno dei primi politici occidentali a rendersi conto che Gorbaciov rappresentava in un certo senso una novità anche rispetto al breve regno di Cernenko che comunque segnava «a suo merito la ripresa della trattativa con gli Usa».

Non è un caso che nell'arco di un quadriennio, fra il 1985 e il 1989, Andreotti si sia recato a Mosca quattro volte come ministro degli Esteri e abbia ricevuto, come presidente del Consiglio, la visita di Gorbaciov a Roma dopo la caduta del muro di Berlino. Se non si vuole proprio parlare di profonda amicizia, è però certo che tra loro si stabilì un ottimo rapporto all'insegna del pragmatismo politico. Il volume Andreotti e Gorbav. Lettere e documenti 1985-1991 (Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. XXX-384, euro 38) a cura di Massimo Bucarelli e Silvio Pons con prefazione di Francesco Lefebvre d'Ovidio, ne offre conferma e dimostrazione. È un volume, promosso dall'Istituto Luigi Sturzo e pubblicato nella collana «Le carte di Giulio Andreotti», costruito utilizzando materiale diplomatico in gran parte inedito proveniente dalla Farnesina nonché quello, a cominciare dalla corrispondenza fra i due statisti, che fa parte appare del patrimonio archivistico andreottiano.

Da politico di lungo corso, ma soprattutto da spirito fortemente pragmatico, Andreotti colse subito l'opportunità offerta dal cambio della guardia ai vertici del Cremlino. Il 28 maggio, poco più di due mesi dopo i funerali di Cernenko, si recò a Mosca insieme a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, per discutere dei rapporti Est-Ovest e trovò un Gorbaciov incline a ricercare un accordo con il mondo occidentale, a liquidare la cosiddetta «dottrina Breznev» sulla sovranità limitata degli Stati facenti parte del blocco sovietico, a ritirare le truppe dall'Afghanistan. Un curioso aneddoto raccolto da Andreotti a Mosca e riportato nei suoi diari spiega come le intenzioni di Gorbaciov di intervenire a fondo anche sulla società sovietica fossero reali. Sembra, infatti, che, poco dopo l'insediamento egli avesse programmato una visita a uno stabilimento industriale della capitale, ma che, salito in macchina, avesse cambiato programma presentandosi all'improvviso in un'altra fabbrica, dove trovò gruppi di operai che fumavano e conversavano allegramente. Secondo Andreotti quella «ispezione senza preavviso» avrebbe finito per giovare «prodigiosamente come scossone verso la disciplina, più delle circolari previste dai piani quinquennali».

La simpatia, la fiducia e le aperture di Andreotti nei confronti del leader sovietico non erano condivise da tutti, soprattutto da un'ala importante della diplomazia italiana. In particolare, l'allora ambasciatore a Mosca, Sergio Romano, in molti suoi rapporti a Roma, in gran parte pubblicati in questo volume, esprimeva forti perplessità. Per esempio, il 2 aprile 1986, rivolgendosi ad Andreotti, spiegava che Gorbaciov puntava alla «modernizzazione» del Paese e aggiungeva che gli accordi di disarmo proposti traevano origine dalla convinzione che l'Urss non sarebbe stata in grado di «fare il grande salto in avanti da lui auspicato e sostenere al tempo stesso l'onere di nuove corse in campo militare». Stando così le cose, e pur riconosciuta l'opportunità di assecondare gli obiettivi della diplomazia sovietica, l'ambasciatore si chiedeva: «Come è possibile pretendere che il clima politico degli ultimi dieci anni venga radicalmente migliorato in pochi mesi, da alcune proposte negoziali fatte pubblicamente e dalla apparizione al Cremlino d'una faccia nuova? Se l'Urss fosse un paese democratico la svolta sarebbe stata preceduta da un grande dibattito nazionale sugli errori della diplomazia brezneviana, e da quel dibattito avremmo tratto indicazioni sulle reali motivazioni della sua nuova politica estera. In assenza di qualsiasi autocritica come possiamo comprare, a scatola chiusa, il new look della diplomazia sovietica?».

Peraltro Andreotti, ironicamente chiamato da Montanelli «Andreottov», mostrava sulla perestrojka e, più in generale, sul riformismo di Gorbaciov comprensione maggiore di quella degli americani e della stessa diplomazia italiana, convinto com'era che, grazie alla «nuova» Russia, l'Italia avrebbe potuto giocare un ruolo non secondario nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. E, non a caso, tale sua linea ebbe qualche conseguenza anche in politica interna dal momento che si registrò un raffreddamento della tradizionale ostilità del Pci verso il leader democristiano.

Momenti cruciali nei rapporti fra Andreotti e Gorbaciov furono sia la visita di stato di Ciriaco De Mita, allora presidente del Consiglio, e dello stesso Andreotti a Mosca nell'ottobre del 1988 sia quella del segretario generale del Pcus in Italia nel novembre 1989 poche settimane dopo la caduta del muro di Berlino quando Andreotti era già divenuto presidente del Consiglio per la sesta volta. Questa visita, in particolare, commosse l'esponente sovietico per il «bagno di folla» che lo aveva accolto e rivelò una sostanziale sintonia fra le posizioni dei due Paesi sulle trasformazioni in atto nell'Europa centro-orientale e su altri temi dell'agenda internazionale.

Che Andreotti avesse preso sul serio la perestrojka lo dimostra la sua risposta del 27 gennaio 1989 a un rapporto dell'ambasciatore Romano critico sulla non linearità dell'evoluzione della perestrojka: «nell'esaminare il fenomeno del gorbaciovismo bisogna guardare al risultato complessivo e agli obiettivi di fondo del Segretario Generale del Pcus, che egli mi sembra persegua con immutata energia ed impegno». Peraltro, il suo giudizio positivo sulla perestrojka Andreotti lo fece conoscere direttamente a Gorbaciov in una lettera del 22 giugno 1990: «Le confermo che il Governo italiano segue con grande attenzione il processo riformistico da Lei avviato in Urss e si augura che esso abbia successo. Il consolidamento della perestrojka è infatti non soltanto nell'interesse dell'Unione Sovietica ma anche di tutti quei Paesi che hanno a cuore una costruttiva presenza dell'Urss in un contesto europeo e mondiale di collaborazione allargata». Qualche tempo dopo, inoltre, il 4 aprile 1991, egli manifestò un forte apprezzamento anche sulla politica estera di Gorbaciov: «i profondi mutamenti che hanno trasformato l'Europa ed aperto una nuova era di sicurezza e di cooperazione hanno certamente avuto in Lei uno dei massimi artefici».

Nel corso del tempo Andreotti e Gorbaciov passarono dai toni ufficiali ai toni confidenziali: le ultime lettere iniziano con un «Caro Giulio» e un «Caro Mikhail», rivelano grande stima umana reciproca e persino l'idea di far parte di una comune civiltà europea. Quando, per esempio, Bush nel gennaio 1991 lanciò l'operazione Desert Storm contro l'Iraq, Gorbaciov scrisse una lunga lettera dove si legge: «Ci siamo detto più di una volta che il mondo, dopo aver abbandonato le roccaforti della guerra fredda e mossosi verso un'epoca nuova, dovrà affrontare sfide difficili. La sfida nuova è stata lanciata al mondo da Hussein. La crisi, trasformatasi in una guerra talmente crudele, ci induce, prima di tutto noi europei, a tracciare i primi lineamenti del processo di pace sul nostro intricatissimo continente, a tenerci tanto della fiducia conquistata e collaborazione appena avviata».

Lavoro importante, da consultare ma anche da leggere, il bel volume Andreotti e Gorbav. Lettere e documenti 1985-1991 racconta in presa diretta, attraverso lo stretto rapporto fra due grandi protagonisti della politica internazionale, uno dei periodi più delicati della storia contemporanea che incrocia la fine della guerra fredda, la riunificazione tedesca, il passaggio da Reagan a Bush alla Casa Bianca, la guerra del Golfo, il fallito tentativo di golpe contro Gorbaciov e la crisi finale dell'Unione Sovietica. Esso offre, a chi lo sfoglierà, la possibilità di rivivere i grandi avvenimenti della più recente storia mondiale al di là del racconto che ne forniscono, codificandolo, i libri di storia.

E non è davvero poco.

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