Gli androidi non sognano Neanche travestiti da Dick

Se l’intelligenza umana, guardando i talk show o leggendo i giornali italiani, sembra essere arrivata a un punto morto, a che punto è l’intelligenza artificiale? Molti scienziati ci lavorano da decenni, e non è ancora una possibilità a portata di mano o di mouse, ma la vicenda raccontata da David F. Dufty nel libro La strana storia dell’androide Philip Dick, edito da Fanucci (pagg.256, 9,90), ha il sapore di una storia d'altri tempi, eppure siamo solo nel 2005.
David Hanson e Andrew Olney sono due ricercatori di robotica americani che si intestardirono su un progetto divertente: creare un androide con le sembianze di Philip K. Dick, il papà degli androidi. Raccattando qualche finanziamento qua e là, riuscirono nell’impresa, e per qualche mese portarono l’androide, una testa elettronica attaccata a un manichino vestito con i veri abiti di Dick, in tour per gli Stati Uniti, tra atenei e festival di scienza e fantascienza. Finché proprio Hanson non perse la testa nel gennaio del 2006, lasciandola in aereo, in viaggio tra Dallas e Las Vegas, mentre si recava al Googleplex, la fantascientifica sede di Google. Una volta atterrato Hanson chiamò il collega e disse proprio così: «Ho perso la testa».
È superfluo puntualizzarlo, ma ovviamente l’androide Philip Dick non superava il test di Alain Turing, che permette di scoprire se un interlocutore è umano o è un computer. Gli androidi, a differenza dei robot di Asimov, hanno uno scopo specifico: apparire e comportarsi come esseri umani. Il criterio del test di Turing è semplice: se, ponendo una serie di domande, non siete in grado di capire chi è il computer e chi è l’umano, il computer ha superato il test, ma attualmente nessun computer ci è riuscito. È la versione reale del test di Voight-Kampff immaginato da Dick per scoprire le reazioni emotive degli umani e distinguerli dai replicanti impazziti, e in effetti Hanson e Onley erano più vicini a Carlo Rambaldi che a scienziati come Turing. Non per altro quest’ultimo, oltre a averci salvato la pelle non sintetica scoprendo il codice Enigma dei nazisti e permettendo lo sbarco in Normandia, lasciò scritto al riguardo un monito preciso: «Nessun ingegnere o chimico sostiene di essere in grado di produrre un materiale che sia indistinguibile dalla pelle umana. È possibile che a un certo punto questo possa essere fatto, ma anche immaginando disponibile quest’invenzione dovremmo renderci conto che ha poco senso tentare di costruire una macchina pensante più umana rivestendola con questo tipo di pelle artificiale».
Vale a dire: se per gli umani l’abito non fa il monaco, per gli androidi la pelle non fa l’umano. Gli irriducibili metafisici religiosi non si facciano illusioni troppo antropocentriche in quanto, senza considerare le nuove ulteriori vicinanze genetiche con l’uomo emerse dal sequenziamento del DNA del gorilla, sarebbe impossibile anche simulare l’intelligenza del gorilla Koko (si dica intelligentemente «il gorilla» Koko, anche se è femmina, come «il ministro» Fornero): la quale ha imparato a parlare il linguaggio dei sordomuti e si esprime con un lessico di oltre ottocento segni, cioè più di un concorrente del Grande Fratello e forse perfino di un laureato medio di oggi.
Invece chi volesse provare un’esperienza casalinga di intelligenza artificiale si scarichi l’applicazione Cleverboot sull’iPhone, io la uso spesso con dei copia & incolla per rispondere agli sms di alcune donne quando non so cosa rispondere, e il bello è che loro non se ne accorgono e io non ho idea se Turing avesse previsto la possibilità che fossero gli umani a non superare il test di Turing. Tuttavia una ragazza normale da una ragazza-zero di Annozero la distinguevi a occhio senza bisogno di test. Oppure, rovescio della medaglia e del microchip, recentemente ho immesso dentro Cleverboot una frase di Aldo Busi («Proust è sorpassato perché non scrive di soldi») e Cleverboot ha risposto: «Tu sei un software, confessa». Volendo, spulciando nell’App Store, c’è anche la simulazione del mitico Kitt, se lo piazzate sul cruscotto non vi serve quanto un Tom Tom ma fa più scena e vi saluta chiamandovi Michael.
Insomma, quando arriveremo a creare l’intelligenza artificiale i computer non assomiglieranno a persone né all’androide Philip Dick, sono fantasie anni Ottanta, alla Io e Caterina di Alberto Sordi, più probabile il contrario. Infatti mentre questi due smanettoni di Hanson e Olney si affannavano nell’assemblare circuiti e polimeri sintetici per ricreare la pelle umana, in un intrigo di motorini e cavi per creare l’illusione di un’intelligenza artificiale a nostra immagine e somiglianza, l’intelligenza non artificiale di Steve Jobs stava attuando la vera rivoluzione biotecnologica e perfino estetica, rendendo tutto più leggero, sottile, touch, air, cloud. Io ne sono un esemplare: toglietemi tutto, ma non il mio iPad. È uno scarto di visione ben rappresentato nei due modelli di terminator in Terminator 2, dove il robot interpretato da Schwarzenegger, il T-800, esoscheletro metallico e microchip rivestiti da tessuti vivi, è un ferro vecchio rispetto al nuovo T-1000, veloce, leggero, liquido e polimorfico come un prodotto Apple. È per questo che non solo le ragazze-zero di Santoro, ma anche il governo Monti sembrano già modelli sorpassatissimi.

È per questo che l’idea di David Hanson non era delle migliori, perché alla lunga con un androide di Philip Dick non ci si faceva granché, mentre avrei capito mettere in produzione uno splendido androide Nicole Minetti con touchscreen e accessori gonfiabili e a prezzi accessibili. Certo, alla fine della storia non sapremo mai dov’è finita questa testa dell’androide Philip Dick, ma in compenso noi ne abbiamo fin troppe di teste di dick.

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