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Applausi al Mozart diretto da Abbado

Alberto Cantù

da Bologna

Alla fine i signori professori si alzano, smettono uno dopo l’altro di suonare la marcia mozartiana «alla turca» (effetti percussivi) e col loro direttore guadagnano le quinte. Pensi alla Sinfonia Gli addii di Haydn dove, in modo analogo, i musici di Nicola il Magnifico chiedono al principe le ferie. Perché una serata, per bella che sia come questa - ovazioni da stadio, rulli di suole sul parterre, battimani cadenzati e tre bis tra cui l’Ouverture dalle Nozze di Figaro -, deve pur finire. Dati di cronaca del concerto ascoltato a Bologna, al Teatro Manzoni che una targa indica «intitolato a Ottorino Respighi musicista bolognese» e a Respighi si potrebbe davvero intitolare visto che i rapporti di Manzoni con la musica e con la Dotta sono praticamente nulli.
Concerto, dunque, dell’Orchestra Mozart e di Claudio Abbado che l’ha voluta. Un gruppo di 53 elementi, 21 dei quali sono «giovani apprendisti» e gli altri solisti di fama e/o «transfughi superlusso» - prime parti - da complessi internazionali. Ovvio che la Mozart suoni bene anzi benissimo (qualche peccatuccio dal vivo si perdona) e risponda meravigliosamente al nitido, perentorio gesto di Abbado. Altrettanto ovvio che, mista com’è, non abbia una fisionomia sua propria così come, almeno per ora, forte energia musicale.
Alla sua confidenza antica con i Classici (Mozart, appunto) e il primo Ottocento di Schubert, Abbado unisce oggi una pur controllata partecipazione e modi interiorizzati che ci ricordano analoghi ancorché pianistici traguardi del suo grande amico e partner Pollini. Per un’integrale su disco dei Concerti violinistici di Mozart, gli archi montano le corde di budello e il diapason s’abbassa come nel ’700. Si parte col più «arcaico», il K 207, e si arriva al secondo di tre capolavori, il K 218. Da gran musicista - sensibile, raffinato, partecipe - e da violinista squisito per tenerezza timbrica e mano sinistra brillantissima, Giuliano Carmignola centra il «vecchio» e il «nuovo» dei due Concerti, ben assecondato dal direttore. L’alata scorrevolezza appena tinta di pathos del Concerto in re maggiore, le cadenzine squisite (di Gulli e sue), il senso teatrale da conterraneo di «Vivaldi operista» sono l’ottava meraviglia.
Grandi applausi, il Concerto in re maggiore per flauto (di legno: d’epoca) con un Jacques Zoon dal bel canto arioso, vario e vago nell’Adagio. Nuovamente corde d’acciaio (moderne) per la Seconda sinfonia di Schubert.

Che Abbado legge con un’energia grazie alla quale i rossinismi divampano e con una tinta affettuosa, una dolcezza in grado di trasfigurare i mozartismi in «puro bello» schubertiano. Il Finale interseca, serrati o distesi, modi narrativi, bucolici e umoristici fra opera buffa e dramma. Chapeau.

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