Armi, musica e conformismi nell'Italia anni Settanta

Guido Mina di Sospiro racconta la vita di un giovane "alieno" in una Milano ad alto tasso ideologico

Armi, musica e conformismi nell'Italia anni Settanta

Terrore e musica di Guido Mina di Sospiro (Lindau), getta una luce interessante sugli anni Settanta del secolo scorso. È il racconto, non romanzato, ma felicemente autobiografico, di un adolescente timido e artistoide, con una forte passione per la musica, che si ritrova nella Milano dell'epoca, piena di tensioni sociali e politiche e ad alto tasso ideologico, come una sorta di alieno in un Paese tanto sconosciuto quanto pericoloso. Pratica come può la dissimulazione, cerca di non entrare mai in urto con il «pensiero unico» che lo circonda, una sorta di marxismo rivoluzionario tanto muscolare quanto culturalmente miserabile, e con il conformismo di massa, giovanile e no, che gli si accompagna, troverà alla fine del decennio la sua via di fuga andando a studiare in una prestigiosa scuola d'arte d'oltreoceano.

Una delle tesi di Terrore e musica è che nella psiche italiana ci sia una «vena violenta», a partire da Romolo e Remo all'invenzione «tutta italiana del fascismo», alle guerre civili che ne furono una caratteristica novecentesca: il cosiddetto «biennio rosso» 1919-21, quella del '43-45 (che secondo alcuni storici arriva al 1949), gli Anni di piombo del decennio Settanta e primi anni Ottanta. Nell'insieme, la «guerra fratricida», più o meno su scala nazionale, sembra essere una nostra costante. È una tesi interessante, che si presta a qualche considerazione critica. La prima è che, al di là del mito e della mitologia che esso comporta, gli italiani non sono romani. Lo sottolineò bene Giuseppe Prezzolini: conquistatori, legislatori, giuristi, costruttori i secondi; militarmente deboli, divisivi, anarchici e creativi i primi... Precisato questo, vanno aggiunte alla «creazione tutta italiana del fascismo» le creazioni, anch'esse peculiarmente italiane, dei Comuni prima, delle Signorie dopo, laddove in Francia per esempio c'era il feudalesimo e in Inghilterra la Magna Carta. La «vena violenta» insomma ha più a che fare con la storia d'Italia che con il carattere degli italiani e del resto le nostre «guerre civili» impallidiscono di fronte a quelle che furono la Rivoluzione francese e la Guerra civile spagnola, per non parlare delle «guerre di religione» dei primi, della cacciata dei moriscos e degli ebrei dei secondi...

Detto ciò e per tornare agli anni Settanta, Mina di Sospiro osserva che, a distanza ormai di mezzo secolo, «non c'è stata una vera e propria riconciliazione e forse non ci sarà mai». Ciò perché permane intorno a essa una sorta di «amnesia selettiva», grazie alla quale l'incitazione omicida alla «giusta violenza» viene lasciata sbiadire in una sorta di rassicurante quanto assolutoria indignazione etica e ideale. Oppure perché si tende a privilegiare la teoria degli «opposti estremismi armati» e così di «responsabilità delle efferatezze degli anni di piombo da dividersi a metà fra destra e sinistra, che è poi la vulgata propinata ai nostri figli e nipoti». Ci sono poi «gli sdrammatizzatori», quelli cioè per i quali in fondo non successe poi un granché, i negazionisti, del genere «molto rumore per nulla» e infine e persino «i nostalgici», che non solo non negano l'esistenza e l'importo mortifero degli anni di piombo, ma ne sentono visceralmente la mancanza, e vorrebbero che continuassero.

Dicevo all'inizio del conformismo di massa, giovanile e no. Sintetizzando, fu un'ubriacatura ideologica, con l'aggravante che il vino era adulterato e gli osti che lo servivano dei ciarlatani. Gli anni Sessanta si erano aperti con gli ultimi fuochi del boom economico che li aveva preceduti e si sarebbero chiusi con l'«autunno caldo» nelle fabbriche e la contestazione giovanile nelle università e nelle piazze, ma intanto l'asse politico italiano aveva virato risolutamente verso sinistra e, non essendoci una destra a fare da contrappeso, risultava per forza di cose sbilanciato. Se si leggono le formule politiche inventate all'epoca, non si sa se sottolinearne lo spirito creativo che le animava o il vuoto pneumatico che le riempiva: «arco costituzionale», «equilibri più avanzati», «convergenze parallele», governi «balneari», «di transizione», «delle astensioni»... Sulla scena elettorale faceva il suo ingresso la prima generazione nata nel dopoguerra e intorno a essa e per essa veniva consolidandosi la leggenda di un'Italia liberatasi dal fascismo grazie alla Resistenza e dove la lotta partigiana aveva avuto un solo colore, quello rosso del Partito comunista, rimasto clandestino, ma operativo durante il Ventennio, e facendo d'ogni erba un fascio (si fa per dire...) di quei partigiani monarchici, liberali, popolari accomunati nel ludibrio di essere stati conniventi con il fascismo, nonché rappresentati da una borghesia reazionaria e codina, contraria a ogni istanza progressista e, naturalmente, rivoluzionaria. Ancora nel gennaio del '79, all'indomani dell'assassinio, a opera delle Brigate rosse, di Guido Rossa, il sindacalista genovese che aveva denunciato l'infiltrazione di propaganda terroristica nella sua fabbrica, il presidente della Repubblica Sandro Pertini se ne uscirà con una rampogna pubblica degna di un retore di quart'ordine: «Non vi parla il Presidente, vi parla il compagno Pertini. Io le brigate rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!». Non sorprende che lo slogan «Uccidere un fascista non è reato» avesse libero corso... Pertini, del resto, come nota Mina di Sospiro, come suo primo atto di clemenza presidenziale aveva graziato il responsabile dell'eccidio di Porzus (17 partigiani non comunisti, tra cui il fratello di Pier Paolo Pasolini e uno zio di Francesco de Gregori, trucidati dai loro omologhi con la stella rossa), per altro condannato all'ergastolo per rapine, estorsioni e omicidio, ma contumace perché rifugiatosi in Jugoslavia e ora grazie a Pertini beneficiario di una pensione di Stato...

Il Partito comunista italiano era allora il più forte partito comunista d'Occidente: il cosiddetto fattore K (come lo battezzerà anni dopo Alberto Ronchey per spiegare perché quella italiana fosse una democrazia bloccata) ne impediva l'ingresso al governo nazionale, visto che l'Italia faceva parte dell'Alleanza atlantica e il Pci aveva come suo referente l'Urss del Patto di Varsavia: ancora nel '68 i carri armati di quest'ultimo erano entrati in Cecoslovacchia e avevano schiacciato la cosiddetta «primavera di Praga». Non impediva però il governo locale, sindaci, comuni, province, tanto meno le cariche istituzionali: il comunista Pietro Ingrao sarà presidente della Camera nel '76.

Non si capisce bene come si potesse conciliare il marxismo-leninismo, la dittatura del proletariato e tutto il resto con il capitalismo, la democrazia parlamentare e la società dei consumi, ma nella sbornia collettiva, giovanile e non solo, nessuno sembrava dargli grande importanza, anche se a sinistra del Pci cresceva una sempre più variopinta armata di partiti, partitini, sigle e movimenti che predicavano non il compromesso storico o l'eurocomunismo, formule dietro le quali il Pci cercava di mascherare il suo cronico, quanto anacronistico, ritardo ideologico, ma, sic et simpliciter, la rivoluzione comunista, qualsiasi cosa quest'ultima potesse significare.

Il conformismo si vedeva nelle mises, eskimo, baschi, barbe, gonnellone, zoccoli olandesi, negli slogan, «Il Palalido è il nostro Vietnam», «ancora e sempre resistenza» e altre amenità del genere. La liberalizzazione delle università permetteva il libero sfogo di un sottoproletariato piccolo borghese che le intasava con gli esami di gruppo, il 18 politico, le assemblee, le occupazioni, i canti popolari con «parole e musica del proletariato» e le nenie degli Inti-Illimani. Si esaltava la «classe operaia» anche se non era chiaro il perché, c'erano i volantinaggi, i cortei, i picchetti e i servizi d'ordine, gli scontri, le molotov, le chiavi inglesi, lo scorrere dell'adrenalina.

La gran parte dei rivoluzionari ventenni dell'epoca, dieci anni dopo li avresti ritrovati nei giornali borghesi che avrebbero voluto bruciare, nelle aziende paterne che avrebbero voluto bruciare, nelle multinazionali, negli uffici pubblici, dietro quelle cattedre scolastiche e universitarie che avrebbero voluto bruciare. Tutti pompieri. Il romanzo cult e insieme il più rappresentativo di quel decennio sarà Porci con le ali e, come avrebbe detto Totò, «Ho detto tutto».

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