Acquavite, il latte ruvido dei montanari

Per secoli è stato il distillato della povertà e della solitudine. Ora si "siede" nell’alta società

Acquavite, il latte ruvido dei montanari

Gli antichi greci chiamarono Enotria la nostra penisola per il molto o inos il molto o oinos (vino) che essa produce, e l'annuario del Touring Club conferma l'esattezza di quella intuizione toponomastica. Sfogliandolo, incontriamo decine di paesi e villaggi dal nome gaiamente bacchico: Torchio (Trento), Torchione (Sondrio), Torchiaro (Ascoli Piceno), Torchiara (Salerno), Torchiarolo (Brindisi), Torchiati (Avellino). Se Udine, capolista nella classifica del consumo medio annuo pro capite, ostenta Vinaio e Buttea, Potenza risponde con Barile, Rieti con Tino, Viterbo con Botte e Venezia con Botti Barbarighe. Per la vendita al minuto, dalle parti di Pordenone troviamo Fiaschetti, frazione di Caneva, che in Veneto vuol dire cantina, e una seconda Caneva vicino a Tolmezzo. Per il vino sfuso, è pronta Caraffa (Catania), che diventa per il pesce, Caraffa del Bianco (Reggio Calabria). I bicchieri non mancano: Novara, Parma, Bolzano, Savona e La Spezia hanno tutte il loro Calice.

Se poi intendete continuare il giro etilico d'Italia incontrerete Bettola a Milano, Novara, a Massa, a Piacenza, a Pavia, ad Alessandria; e Bettole a Vercelli, Alessandria e Brescia; Osteria ad Ancona, Osteria della fontana (una contraddizione in termini!) a Frosinone, Osteriette a Pavia, Beverino e Bverone a La Spezia. Alla fine del vinoso pellegrinaggio, come sarà la testa del lettore? Imbriaca (frazione di Corleone, metri 716 sul mare).

Assente, nell'inebriante catalogo, il monte Grappa, per la semplice ragione che non è un centro abitato. Ma di tutti questi toponimi legati al mondo della vite e del vino, è quello più carico di suggestione, evocando l'epopea del '15-18, con quel suo nome bifronte, di ambigua provocazione, che sa di roccia e di vendemmia, di trincea e di osteria, di eroismo e di cori col falsetto. Monte Grappa Tu sei la mia patria: è stato il monte a dare il nome all'acquavite o viceversa? E si chiama acquavite perché è acqua di vite o perché è acqua di vita, che dona la vita? "Meritatamente si può chiamare acqua di vita - scrisse il medico senese-trentino Pietro Andrea Mattioli, nel 1565, perché aumenta et conserva tutte le cose che si pongono dentro di lei preservate et non si corrompono, così parimenti conserva la vita di coloro che l'usano di bere, togliendo dai loro corpi ogni putredine".

Per secoli è stata la bevanda della povertà, della solitudine, della emarginazione, sempre guardata con sospetto dalle polizie, quale sobillatrice della disperazione plebea. Raramente un anarchico odorava di cognac. Semmai puzzava di grappa. Essa era il latte dei montanari, il carburante dei facchini, la coramina dei carrettieri. In alcune zone della Carnia c'era l'abitudine (ora scomparsa) di svezzare i bimbi con latte e grappa, temerario residuo di terapie medievali, quando si combatteva peste ed epidemie mediante liquori forti, che davano al malato una sensazione illusoria di vigore e benessere. Solo ultimamente la grappa è ascesa con gloria alle mense dei potenti. Elisabetta d'Inghilterra, nel giorno delle sue nozze, assaggiò quella di Nardini. Kossighin, al termine di un banchetto veneziano, esclamò "muolto buona questa gruappa" e si fece mandare al Cremlino un cartone di Segnana. Hemingway, da Cipriani, alternava aquavite al Valpolicella e al "montgomery", cocktail inventato da lui, 15 parti di gin e una di martini, la stessa proporzione, diceva, che il maresciallo inglese pretendeva fra le sue truppe e quelle tedesche, prima di attaccare battaglia.

Il boom della grappa, che Ceretto e Bocchino personalizzano con bottiglie "dedicate" al cliente, è arrivato sull'onda del revival contadino, ci ricorda la vita semplice dei campi, (lodata specialmente da chi l'ha mai provata) le madie, gli stampi di rame appesi al camino, i macinini da caffè, le cose che usava la nonna prima che la civiltà dei consumi consumasse la vecchia civiltà. La grappa è l'equivalente etilico del pollo ruspante, del minestrone con la cotica, distillato ritroso e ruvido, senza le mondane smancerie del cognac. Entrambi liquori d'assalto, la grappa aiuta l'alpino a conquistare una trincea, il cognac il libertino ad espugnare un séparé. Come si permetteva dunque la rozza contadina, semianalfabeta, di presentarsi nei salotti, accanto al cognac e al whisky, i sofisticati cugini laureati alla Sorbona e a Oxford? Perciò il suo ingresso in società fu guardato con un misto di scetticismo, fastidio e compassione. Ma la grappa smentì tutte le previsioni e piacque. Anche perché sì è ingentilita, raffinata. Non rutta più. Ha conquistato sempre più larghi strati di estimatori grazie alle donne, che hanno imparato a fumare in massa e i liquori dolci, gozzaniani, mal si accordano con la sigaretta. Beviamo liquori secchi perché viviamo un'epoca di scarse dolcezze, di sentimenti aridi.

Per digerire terrorismo e camorra non servono rosoli. A cronache forti, liquori forti.

Entrando in società, la grappa non ha rinunciato alla sua immagine rustica e si è presentata dentro recipienti a forma di borraccia (Candolini), di fiasca (Piave), di botticella (Nonino, Camel), di zucca (Carpené Malvolti), nella paglia (Ceschia) o nel sacco (Fior di vite). Nata in convento, distillata dai monaci tra la copiatura di un codice e la recita di un salmo, è rimasta fedele al voto di castità. Non si marita ad altri liquori, odia l'ammucchiata del cocktail.

(10 maggio 1982)

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