Addio a Mimmo Jodice, il fotografo che ha rivelato l’anima nascosta di Napoli

È morto a 91 anni uno dei grandi maestri dell’immagine del Novecento. La sua fotografia era arte, memoria e visione: un racconto poetico della città, oltre ogni stereotipo

(Foto video)
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È morto a 91 anni Mimmo Jodice, uno dei più grandi fotografi italiani, l’artista che più di ogni altro ha saputo guardare Napoli dall’interno, rivelandone le ferite e la bellezza, i suoi volti nascosti e la sua memoria profonda. Con lui se ne va non solo un maestro dell’immagine, ma anche un poeta della visione, un uomo che ha trasformato la fotografia in un atto di pensiero e di amore verso la sua città.

Napoli, il centro del mondo

Jodice non ha mai abbandonato Napoli. Vi è nato, vi ha insegnato, vi ha lavorato per tutta la vita, convinto che quella città fosse la sua linfa vitale. “Se fossi nato a Milano o a Zurigo non avrei fatto il fotografo. Non sarei sopravvissuto alla mancanza del mare”, diceva. E forse è proprio quel mare, insieme al caos, alla luce, ai contrasti di Napoli, ad avergli dato la capacità di guardare la realtà con uno sguardo mai neutro, sempre abitato da emozione e mistero.

Negli anni della giovinezza, tra arte e militanza politica, Jodice è stato un fotografo ribelle. Ha raccontato la città della povertà e del colera, delle lotte e dei terremoti, ma anche quella della dignità e del riscatto. Le sue fotografie non erano solo immagini, ma gesti civili: scattava, stampava e, insieme alla moglie Angela, le attaccava sui muri dei quartieri benestanti, di notte, per costringere i privilegiati a vedere ciò che non volevano vedere.

Il fotografo della Napoli invisibile

Poi, quando la città smise di voler guardare se stessa, Jodice scese sotto la pelle di Napoli. Letteralmente. Andò nei sotterranei, nei musei, negli scavi archeologici. Fotografò statue e reperti come fossero esseri viventi, dando voce alla storia dormiente. In quelle immagini in bianco e nero, i volti di marmo sembrano respirare, gli occhi vuoti delle sculture si riempiono di umanità. È la Napoli sotterranea, mitica e senza tempo che solo Jodice sapeva far riemergere.

Il suo fu un viaggio nella memoria collettiva: le sue fotografie raccontano una continuità invisibile tra l’uomo antico e quello moderno, tra la vita e la pietra, tra la storia e la sua eco. Era convinto che la fotografia non dovesse “riprodurre il reale”, ma strappargli il velo dell’ipocrisia. “La fotografia rappresenta, non documenta”, ripeteva.

L’incontro con l’arte contemporanea

Negli anni Settanta, Napoli viveva una stagione irripetibile di fermento culturale. Alla galleria Amelio, Jodice incontrava e fotografava i grandi artisti internazionali: Andy Warhol, Joseph Beuys, Sol LeWitt, Vito Acconci, Robert Rauschenberg, Hermann Nitsch. Con loro instaurò un dialogo tra fotografia e arte concettuale che lo portò a diventare una figura centrale nel dibattito visivo del Novecento. Molti di questi artisti interagirono con le sue opere, creando cortocircuiti visivi che trasformarono la fotografia in linguaggio artistico autonomo, libero da ogni funzione descrittiva.

Dalla militanza alla poesia delle pietre

Dopo gli anni delle lotte e delle disillusioni, Jodice cambiò direzione. “Da un giorno all’altro a nessuno interessò più vedere quello che io vedevo. E io li feci uscire dal quadro”, diceva, riferendosi alla sparizione della figura umana dalle sue foto. Ma in realtà, quell’umanità continuò a esistere, nascosta nei volti delle statue, nei frammenti del passato, nei reperti che tornavano a vivere grazie al suo sguardo.

La sua divenne una “archeologia dell’anima”, un lavoro di scavo emotivo e visivo che univa l’estetica all’etica, il tempo storico al tempo interiore.

L’uomo e il maestro

Dietro il grande fotografo, c’era un uomo mite, silenzioso, ironico e profondamente umano. Per decenni ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, formando generazioni di artisti e fotografi. Nella sua casa di Posillipo, piena di opere e ricordi, ha mantenuto intatta la sua camera oscura, il suo regno segreto, “rossastro come un ventre materno”, dove continuava a stampare e sperimentare.

Jodice non inseguiva le mode né le carriere. Per lui la fotografia era un linguaggio interiore, un mezzo per pensare. Diceva di sentirsi “predestinato alla fotografia”, ma non per servire la macchina o il mercato: per servire la visione, per indagare quel confine sottile tra realtà e sogno, luce e ombra, presenza e assenza.

L’eredità di uno sguardo

Nel suo immenso archivio, dalle serie “Mediterraneo”, “Città invisibili”, “Isolamenti”, resta una delle più potenti meditazioni visive del nostro tempo. Un alternarsi di pacificazione e tragedia, di silenzio e profondità, in cui convivono la dolcezza della memoria e la consapevolezza della fine. Come scrisse una volta, citando Pessoa: “Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?

E in quell’atto di visione, pieno di pietà e di stupore, si trova ancora oggi la chiave della sua eredità: la fotografia come esperienza

spirituale, come modo di stare al mondo. Con lui, Napoli perde uno dei suoi occhi più lucidi e più innamorati. Ma la sua città, come le sue statue di pietra, continuerà a guardare attraverso il suo sguardo.

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