Michelangelo scolpì le parole di Dante

Pubblichiamo un brano del nuovo libro di Vittorio Sgarbi, "Michelangelo. Rumore e paura" (La nave di Teseo, pagg. 280, con illustrazioni, euro 22)

Michelangelo scolpì le parole di Dante

La Pietà vaticana, oltre a essere sublime, presenta una situazione impossibile: la madre di Cristo, morto a trentatré anni, è una ragazza più giovane di suo figlio. In quest'opera l'ispirazione dal mondo dell'arte mi è sembrata sempre meno forte, meno prevalente, di quella suggerita da a uno straordinario testo letterario: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d'etterno consiglio,/ tu se' colei che l'umana natura/ nobilitasti sì, che 'l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura./ Nel ventre tuo si raccese l'amore,/ per lo cui caldo ne l'etterna pace/ così è germinato questo fiore./ Qui se' a noi meridïana face/ di caritate, e giuso, intra i mortali,/ se' di speranza fontana vivace./ Donna, se' tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazie e a te non ricorre/ sua disïanza vuol volar sanz'ali./ La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fïate/ liberamente al dimandar precorre./ In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s'aduna/ quantunque in creatura è di bontate».

Questi versi di Dante sono il punto d'arrivo della Divina Commedia, sono la preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine nel XXXIII canto del «Paradiso». San Bernardo vede la Vergine così vicina a Dio che è come se, dicendo di lei, dicesse di Dio. Sta parlando di un essere umano la cui condizione è talmente singolare che da umile creatura viene scelta per farsi creatrice del suo creatore: madre di Dio. L'eccezionalità di questa condizione di Maria si palesa anche dopo la morte: la Vergine ha ottenuto il grande privilegio di trovarsi già in paradiso con il corpo, pur essendo umana. È il tema, il dogma, dell'Assunzione. San Bernardo innalza questa preghiera e Michelangelo la sente così propria da scolpire nel marmo quanto Dante ha scritto nella Commedia. Vergine Madre, nulla è più singolare che essere vergini e madri, ma c'è anche un'altra contraddizione: «figlia del tuo figlio».

Dio è il Creatore. Ha creato l'umanità, ha creato quindi anche la Vergine. Però la Vergine è la madre di Cristo, che è Dio, quindi lei è concettualmente figlia di suo figlio. E Michelangelo la rappresenta diciottenne, nell'età in cui lei teneva il bambino in grembo (...). Un bambino prezioso, che muove in lei sorriso, felicità, o anche meditazione, come troviamo in Piero della Francesca, in Bellini, in Raffaello. Nella Pietà michelangiolesca Maria è ancora la Madonna con il Bambino, come se quel Cristo morto fosse in realtà ancora il bambino che era stato.

Michelangelo comprime il tempo, creando un paradosso cronologico che in realtà sembra dar senso plastico ai versi di Dante. Dice Bernardo nella sua preghiera rivolta alla Vergine Madre, Madonna del Giudizio, che è proprio lì, prossima a Cristo, come la ritroveremo nel Giudizio universale della Cappella Sistina: «tu se' colei che l'umana natura/ nobilitasti sì, che 'l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura». Cioè a dire: il fattore dell'umanità non ha disdegnato di essere «fattura» della madre che è la Vergine. Maria è madre del Creatore. Paradosso, iperparadosso: una vergine madre del suo creatore, e quindi il suo «fattore» non ha disdegnato di farsi sua «fattura», cioè di essere fatto da lei. «Nel ventre tuo si raccese l'amore,/ per lo cui caldo ne l'etterna pace/ così è germinato questo fiore».

Il fiore è Cristo stesso che nasce dentro il ventre di lei. Ma la grandezza, la benignità che lei esprime possono anche emergere spontaneamente. Questi, i versi più nobili: la benignità di Maria non soccorre soltanto chi domanda qualcosa, chi chiede aiuto, ma spesso accorre in aiuto liberamente prima che glielo si chieda. Una pagina meravigliosa: «La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fïate/ liberamente al dimandar precorre». Molte volte anticipa la nostra stessa richiesta. E questa è la misericordia assoluta, infatti: «In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s'aduna/ quantunque in creatura è di bontate».

Tutto quello che nelle creature ci può essere di buono si fa uno, si «aduna», nella persona di Maria. Questa straordinaria rappresentazione, nel più alto dei cieli, della Vergine, induce Michelangelo, come in una sfida, a esprimere nel marmo quello che Dante ha espresso con le parole. Così, nella Pietà di Michelangelo emerge la misericordia di cui parla Dante: Maria apre le braccia e tiene il suo bambino, che, seppur adulto, conserva la fragilità del fanciullo che è stato. Il Cristo non è neppure corrotto o violato dalla morte, sembra riposare. Il suo volto è dolce, non reca segno alcuno del male patito.

Nelle Pietà della tradizione la Madonna è dolente. In Michelangelo è distaccata, distante. Non solo lei è giovane, figlia di suo figlio, madre del suo bambino, nell'età in cui tutto inizia, ma anche senza tragedia, in una condizione, piuttosto, di meditazione: Maria è serena e medita sul mistero. Ha la certezza, dentro di sé, che Cristo non morirà. È la contrazione del tempo reale, il superamento della pura cronologia, del nesso causa-effetto, del passaggio del tempo; e ci introduce mirabilmente, come mai accaduto prima d'ora, nel mistero centrale del cristianesimo.

È significativo che questo capolavoro sia del 1499, ovvero al limite del secolo, al culmine dell'arte moderna che, nel Trecento, superando l'arte bizantina, ha inteso dare espressione ai sentimenti, agli stati d'animo, alla verità interiore. L'arte moderna comincia con Giotto, con la Cappella degli Scrovegni a Padova, nella potenza di quegli affreschi dipinti tra il 1303 e il 1305, dove si rappresentano sentimenti umani che noi sentiamo nostri ancora oggi. Giotto inaugurava, nel Trecento, un mondo nuovo. Con la Pietà del Vaticano siamo sulla soglia del nuovo secolo, che si aprirà con un'altra opera di Michelangelo: il David.

Dunque Michelangelo chiude e apre un secolo nuovo. Ma Michelangelo, come Raffaello, come Leonardo, scavalca i secoli, e giunge sino a noi. Su quest'idea formidabile, incarnata nella Pietà, che sospende il tempo, in età contemporanea si è esercitato Jan Fabre, un artista ospite della Biennale di Venezia del 2011, l'anno in cui io ho curato il Padiglione Italia. Egli portò una copia perfetta della Pietà di Michelangelo. Copia, non replica, perché è identica e diversa insieme. Identico è il meraviglioso panneggio, che un marmo bianco può riprodurre. Ma ciò che vuole esprimere l'artista fiammingo Jan Fabre è quello che Michelangelo aveva omesso nel suo meraviglioso paradosso di una madre «figlia di suo figlio», e cioè il tempo. Jan Fabre, avendo compreso il paradosso di Michelangelo, reintroduce il fattore tempo, e dopo più di cinquecento anni scolpisce un'immagine uguale e diversa. È la stessa Madonna che, trascorsi cinquecento anni, è diventata scheletro, teschio.

E Cristo è vestito come noi, con giacca, cravatta, pantaloni: è nostro contemporaneo.

Quindi il tempo s'è impossessato di questa Pietà e l'ha sottratta alla condizione atemporale a cui Michelangelo l'aveva destinata. Fabre ebbe un'intuizione straordinaria che rese quest'opera oggetto di discussione alla Biennale del 2011, ma certamente è una mirabile interpretazione del senso della Pietà michelangiolesca.

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