
Perché i casi di cronaca nera ci turbano e attirano la nostra attenzione? Perché ogni omicidio provoca un doppio trauma: da un lato l'evento biologico, irripetibile e crudo nelle sue tracce; dall'altro un vuoto di senso che colpisce la percezione condivisa e mette in crisi l'ordine simbolico della comunità.
Il sistema penale interviene in questa zona di confine. Non limita la sua missione alla verità oggettiva che ricerca con la tecnica investigativa, ma deve anche ricomporre l'orizzonte di senso infranto dall'omicidio.
Ogni passo del procedimento riduce la complessità originaria. L'esperienza dei fatti accaduti diventa dato quando viene catturata da fotografie, tabulati, residui biologici e diventa prova solo se supera il vaglio di pertinenza e attendibilità. Infine, quando il giudice la inserisce in una motivazione logica e coerente, si trasforma in verità processuale.
Non è relativismo: è consapevolezza che la conoscenza giuridica opera con soglie di approssimazione («oltre ogni ragionevole dubbio»), non con certezze assolute.
Su questo teatro, si muove la figura del colpevole. Giuridicamente è il destinatario della pena; sul piano antropologico ricorda il capro espiatorio di RenéGirard: un corpo che possa attrarre la violenza diffusa per bloccarne l'esplosione incontrollata. Nella Roma arcaica, il colpevole era ritenuto sacro, e questa sacralità autorizzava chiunque ad ucciderlo per placare la divinità offesa dal delitto. Nella modernità non viene lapidato, ma narrato: la sentenza lo individua, lo racconta e lo inserisce in un ordine simbolico che permette di archiviare l'evento e tornare alla normalità.
La verità giudiziaria, pertanto, non è la fotocopia del reale; è una costruzione concreta che deve apparire abbastanza stabile da reggere il peso della convivenza civile. Il diritto contemporaneo lo sa e adotta dei correttivi:
appello, ricorso, revisione, perizie di aggiornamento, riaperture in chiave genetica. Questi correttivi impediscono che il processo si riduca a puro teatro e ammettono, senza ipocrisie, che in ogni sentenza è insito il margine d'errore. Non a caso il recente saggio di MassimoDonini, Nolite iudicare (2025), richiama l'ammonimento evangelico a «non giudicare».
Il giudizio penale assomiglia a una tragedia: mette in scena il caos, ne esplora il logos e, a costo di qualche approssimazione, restituisce alla società la possibilità di proseguire. Non si tratta di chiedersi «È stato lui?». Ma: «Di quanta certezza abbiamo bisogno per chiudere la ferita sociale, senza fingere che il procedimento sia infallibile?».