Figliolo dimmi i tuoi peccati», si diceva. Oggi in confessionale mi capita di ascoltare persone che presentano una dettagliata lista di peccati del mondo, della società, della famiglia, del condominio, del posto di lavoro, degli amici. Tranne i propri. Il disastro delle guerre, l'incertezza economica, le stagioni sballate, i politici inconcludenti. Poi si apre il capitolo nuore/suocere con dovizia di particolari, accanto alla parentesi dei figli che non capiscono, non collaborano, non vanno a Messa. Si passa al condominio con uno zoo di ottusità. Qualcuno si lamenta della diffusa irosità impaziente, con il dubbio che sia responsabilità del Covid. Per concludere ci sono le colpe di Dio, perché potrebbe fare di più e farsi sentire. Si uniscono gli annessi e connessi: preti, chiesa, riti vetusti, nessuno va più a Messa.
A questo punto mi domando se l'assoluzione devo salire sul tetto a darla, «Urbi et orbi». E l'io? E la propria coscienza? E la propria vita? «Cosa vuole che faccia?! Niente! Sono qui perché sono qui. Va beh. Sì, dai. Ci sta ogni tanto. Tutto ok, dai, qualche dolorino, ma è l'età. Non ci si può lamentare. Con tutto quello che c'è in giro. E poi? Non starò a dirle le solite cose, quelle di tutti, quelle di sempre. Non la voglio annoiare, le sa benissimo». E quindi? E la tua di coscienza? E la tua di interiorità? Credo sia una dimostrazione di quel fenomeno di cui spesso si parla in diversi campi: l'analfabetismo emotivo. In un momento in cui, mai come oggi, ci sono potenzialità di conoscenza e di informazione, in un periodo in cui siamo immersi nelle parole dell'oceano dei social, in un contesto in cui se devi dire qualcosa relativamente a qualsiasi materia o concernente un dettaglio sperduto in qualche angolo del mondo basta chiederlo a ChatGPT che ti dà in una manciata di secondi quanto richiesto, non si è invece più capaci di decifrare i propri sentimenti, di interpretare le proprie emozioni, di gestire le proprie reazioni, ma anche addirittura di chiamare per nome quello che si prova. Di conseguenza non si sa cosa è bene o male. Inoltre basta poco perché qualcuno - magari con dei post ammalianti - prenda per sé il diritto di dirti cosa è quella cosa, se è buona o no, se è utile o dannosa, se è da prendere o da rifiutare alla faccia della libertà di coscienza. «L'ho letto in internet, lo fanno tutti, adesso si usa così», ci si giustifica. Secondo Umberto Galimberti, per l'incapacità di riconoscere e controllare le proprie emozioni, l'analfabeta emotivo è vittima di un inaridimento del cuore, che lo rende incapace di provare empatia e compassione; è quindi freddo e imprevedibile. L'incapacità di leggere nel proprio animo provoca smania di azione. Se non si è capaci di fare chiarezza con se stessi, non ci si deve stupire se prevale la difficoltà a capire gli altri, la reazione eccessive ai problemi, il senso di sopraffazione e l'ansia da prestazione, gli attacchi di panico, le sclerate, la mancanza di sensibilità e assertività, la disponibilità a mettersi nei panni degli altri per creare legami significativi e non solo relazioni motivate dall'interesse personale. La mancanza di consapevolezza e comprensione delle emozioni, secondo Daniel Goleman, può portare a comportamenti aggressivi e a una incapacità a gestire le relazioni interpersonali, aumentando la probabilità di conflitti e di violenza con reazioni impulsive e sconsiderate che sbottano in una aggressività futile, come quella del bullismo, degli haters sui social, fino alla violenza di genere.
I costi dell'analfabetismo emotivo possono essere enormi: pensiero polarizzato, amore tossico e possessivo, repressione e intolleranza, razzismo o sessismo, narcisismo, bisogno ossessivo di avere ragione, apatia affettiva, noia, mancanza di stimoli da placare solo con eccessi, la non capacità di gestire dimensioni quali la crisi, la tristezza, la rabbia, la paura o la delusione. Tutto questo rende più vulnerabili, più complessati, più depressi. Che peccato! C'è un termine che va di moda e attorno al quale c'è molta attenzione: «know-how», letteralmente «sapere come».
Indica le competenze, le conoscenze, le abilità, le esperienze per un'ottimale attività. Mi chiedo perché nella corsa al «know-how» da vantare non ci sia una ricerca parallela del «know-why», il «sapere perché». Ci vuole davvero così tanto a chiedersi: «Ma io?».
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