L’Italia divorata dal turismo del gusto

Tra carbonare-spettacolo e spritz da souvenir, il Paese del buon cibo rischia di perdere la propria anima.

L’Italia divorata dal turismo del gusto

È un paradosso tutto italiano: il Paese che ha fatto della cucina un’arte e un simbolo universale sta lentamente trasformando il proprio patrimonio gastronomico in un’attrazione turistica, uno spettacolo da consumare più che un linguaggio da vivere.

A denunciarlo è un recente e incisivo reportage pubblicato sul New York Times, firmato dalle giornaliste Emma Bubola e Motoko Rich, che descrivono con toni amari e precisi come le principali città italiane Bologna, Firenze, Roma e Torino si stiano trasformando in “ristoranti a cielo aperto”, dove tutto è studiato per lo sguardo del turista e sempre meno per l’esperienza autentica di chi quei luoghi li abita davvero.

Nel loro articolo, le due corrispondenti raccontano un’Italia diventata un palcoscenico gastronomico permanente, dove si servono carbonare in padelle luccicanti, dove le donne tirano la sfoglia dietro vetrine di vetro come figuranti di uno zoo culinario, e dove le insegne promettono ovunque “authentic Italian food”, anche quando di italiano rimane solo l’estetica. È un ritratto tanto vivido quanto inquietante: le strade delle città più visitate d’Italia sono ormai dominate da format gastronomici ripetuti, da menù tradotti in quattro lingue e da piatti pensati più per essere fotografati che gustati.

È qui che le autrici introducono il termine “foodification”, la gentrificazione del cibo, per descrivere un fenomeno ormai globale ma che in Italia assume un significato più profondo, perché investe il cuore della sua identità culturale. Secondo i dati riportati, il turismo oggi pesa per oltre il 13% del PIL italiano, e il turismo enogastronomico è quasi triplicato nell’ultimo decennio. Una crescita che porta ricchezza, certo, ma anche una perdita di equilibrio.

Il cibo, che per secoli è stato l’anima quotidiana delle città italiane, sta diventando un linguaggio turistico, standardizzato e privo di radici. “Sebbene gli italiani siano fanatici della propria cucina nazionale,” scrivono Bubola e Rich, “molti temono ora che proprio quella cucina stia soffocando i centri urbani, cancellando botteghe e vita quotidiana a favore del commercio turistico.” I dati urbani confermano il disagio: il centro di Roma ha perso oltre un quarto dei suoi residenti negli ultimi quindici anni, mentre Venezia e Firenze continuano a svuotarsi a un ritmo ancora più rapido. Dove spariscono le persone, restano le insegne luminose e le file davanti a trattorie fotogeniche.

È così che si manifesta, secondo il New York Times, “una delle più pervasive trasformazioni urbane dell’era del turismo”: la nascita di città-vetrina, abitate solo dal consumo. E qui arriva la frase che riassume il senso del loro reportage: “Gli spritz e le carbonare si sono mangiati l’Italia.”Una metafora perfetta per descrivere un Paese che rischia di divorare se stesso, soffocato dall’immagine del proprio mito gastronomico. L’icona della convivialità italiana il piatto di pasta, il bicchiere condiviso, la tavola come rito sociale si è trasformata in un prodotto da vendere al dettaglio, in una foto da condividere più che in un’esperienza da vivere.

La cucina, da strumento di comunità, è diventata intrattenimento. Il paradosso più amaro, sottolineano le due giornaliste, è che proprio mentre la cucina italiana viene candidata a Patrimonio Immateriale dell’Umanità UNESCO, la sua autenticità rischia di dissolversi.Quello che un tempo era un patrimonio vivo, fondato sulla lentezza, sul lavoro quotidiano e sul legame con la terra, oggi è confezionato, impiattato e servito come souvenir. La “tradizione” è diventata una parola vuota, ripetuta nei menù come slogan pubblicitario.

Ogni città tende a somigliare alle altre, e la differenza tra una trattoria di Trastevere e un bistrot nel centro di Firenze si misura ormai solo nel filtro fotografico di uno smartphone. Dietro questa spettacolarizzazione del cibo c’è una crisi culturale profonda. Il cibo, in Italia, non è mai stato solo nutrimento: è identità, è linguaggio, è racconto. È il modo in cui le persone si riconoscono, si ritrovano e si tramandano. Ma quando il cibo diventa marketing, quando serve a rappresentare più che a nutrire, si perde il suo significato. Le “nonne” diventano attrazioni da vetrina, i mercati rionali si svuotano, e la memoria del gusto si riduce a performance per turisti.È la trasformazione di un Paese che, per mantenere il proprio mito, finisce per vivere di imitazioni di se stesso. Eppure, il messaggio delle due giornaliste non è di condanna, ma di allarme.

L’Italia non è un Paese perduto, ma un Paese in bilico. Può ancora scegliere se continuare a recitare la propria immagine o tornare a viverla. Può ancora salvare i suoi centri storici restituendo spazio ai residenti, proteggendo le botteghe, sostenendo la ristorazione autentica e ridando tempo al tempo della cucina. Difendere la gastronomia italiana, oggi, non significa respingere i turisti, ma rimettere al centro la verità del cibo, quella che non ha bisogno di filtri, né di scenografie. L’articolo del New York Times non è solo un atto d’accusa: è uno specchio.Mostra all’Italia il rischio di smarrire ciò che la rende unica, la sua intimità quotidiana, la capacità di creare bellezza anche in un piatto semplice.

Perché la cucina italiana, ricordano Bubola e Rich, non è nata per stupire, ma per unire. È un gesto umano prima che turistico, un atto d’amore prima che economico. Se oggi l’Italia vuole salvarla, deve tornare a viverla così: lontano dalle vetrine, di nuovo intorno alla tavola.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica