La tonaca che portiamo non è un’armatura. Il suicidio dei sacerdoti deve far riflettere

Quando l’umanità non ha più diritto di cittadinanza, quando tutto si riduce a un ruolo (prete/coniuge/genitore/dipendente), quando unico criterio è il proprio bisogno egoistico, quando avere dei limiti è visto come fallimento e la fragilità equivale ad essere rotti, lì c’è “istigazione al suicidio” senza necessariamente dover morire

La tonaca che portiamo non è un’armatura. Il suicidio dei sacerdoti deve far riflettere
00:00 00:00

Oggi sono pensieroso. Un anno fa si suicidava Francesca, una cara amica, mamma di tre figli. Un grido silenzioso, il suo, inaspettato e incomprensibile, che ancora sta rimbombando in me. In questi giorni i social hanno abbondato di commenti sulla morte di don Matteo, prete di 35 anni, bello e attivo. Nessuno si era accorto di niente. La vigilia di Pasqua la stessa straziante notizia ha colpito Bergamo, senza però avere la stessa eco mediatica.
Don Paolo, 40 anni, prete brillante, appassionato del dialogo interconfessionale, si è suicidato il sabato santo. Una sfida alla risurrezione o un tuffo in una desiderata vita nuova? Il confessionale oggi è vuoto perché mai nessuno (credo) ha confessato il peccato di «istigazione al suicidio».
È un reato quando l’esito è tragico, ma è un peccato ogni atteggiamento che spinge qualcuno a smettere di vivere e scegliere di tirare a campare solamente. Succede ogni volta che si toglie dignità a qualcuno con una parola, con un’azione, con una dimenticanza, con una pretesa. Non si provoca la morte, ma si strappa via la vita. Succede nelle coppie che sono prigioni a causa di rapporti tossici. Succede in famiglia quando si convive come sconosciuti urlanti. Succede al lavoro quando si è schiacciati o usati. Succede sui social quando si attacca pavidamente nascosti dietro uno schermo. Succede ogni volta che non c’è verità e giustizia, non c’è accettazione delle differenze, non c’è comprensione delle fatiche.
Provo a farlo capire confessando alcune sensazioni che io ho da prete. La veste che indossiamo non è una corazza che rende immuni dal dolore, che mette al riparo dalle inquietudini dell’anima, che protegge dai colpi bassi della vita, che fa stare lontano i sentimenti. I dubbi non ci fanno dormire. Come tutti.
Sento continuamente dirmi che la Chiesa deve aprirsi e modernizzarsi, poi però le stesse persone giudicano impietose con bigottismo talebano, pur vantandosi di essere non religiose. Un confratello ha dipinto così la realtà. «Non puoi piangere: altrimenti sei melodrammatico. Non puoi stancarti: saresti un pigro.
Non puoi fare una carezza a un bambino: rischi l’etichetta infamante. Non puoi avere un’amica donna: è l’amante. Non puoi avere un amico: c’è chi insinua che sia il tuo fidanzato. Non puoi dare un abbraccio: saresti ambiguo. Non puoi andare in ferie: sei un borghese. Non puoi farti un regalo: sei uno spendaccione.
Non puoi curarti: sei un narcisista. Non puoi comportarti con leggerezza: sei inopportuno. Non puoi fare il brillante: sei ridicolo. Ma nemmeno puoi mettere la tonaca: sei un bacchettone fuori tempo». Poiché cambiando i fattori non cambia il risultato, la stessa cosa vale per ognuno nel suo ambito. Qualcuno dice che noi sacerdoti non dovremmo mai parlare della vita di coppia: cosa ne sappiamo? Con tutto quello che ascolto «nella buona e nella cattiva sorte» ho la presunzione di saperne più di molti perché, come si dice, «non tutti gli sposati sono mariti o mogli».
Comunque per chiunque si chiama spegnimento dell’entusiasmo, impoverimento delle prospettive, asfissia di sogni, inaridimento della vitalità, logoramento dei sorrisi, opacità degli sguardi.
Da prete oltre al “sacramentificio” in cui ognuno ha necessità inderogabili per giorno, ora, stile, condivido problemi per cercare soluzioni, raccolgo confidenze più per crisi che per successi, asciugo lacrime, sono disponibile a bisogni non solo religiosi ma anche psicologici (a volte psichiatrici), faccio da consulente familiare, di coppia, di dinamiche adolescenziali o lavorative, intervengo da mediatore in litigate. Non sono solo adempimenti da compiere, ma sentimenti che travolgono. Poi però chi si accorge di come sta il prete? Quando l’umanità non ha più diritto di cittadinanza, quando tutto si riduce a un ruolo (prete/coniuge/genitore/dipendente), quando unico criterio è il proprio bisogno egoistico, quando avere dei limiti è visto come fallimento e la fragilità equivale ad essere rotti, lì c’è “istigazione al suicidio” senza necessariamente dover morire. Non si può denunciare in tribunale, ma confessarlo a se stessi apre sorrisi, carezze, mani tese, spalle offerte. Arrivando in fondo mi accorgo di avere scritto righe cupe, ma l’ho fatto perché ho la fortuna di essere sereno tra mille domande e debolezze.

Questa fortuna qualcuno non ce l’ha, ma mi chiedo quante volte non me ne accorgo o peggio se ne sono io la causa. La vita è proprio bella, nella sua quotidiana semplicità donata, tra alti e bassi. È un peccato rovinarla e rovinarsela.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica