Giuseppe Busso, il progettista nel cuore dell'Alfa

Giuseppe Busso è il progettista che ha reso grande l'Alfa Romeo nel secondo dopoguerra, ed è il padre di alcuni dei motori più gloriosi di sempre

Gli uomini dell’Alfa Romeo in una foto dei primi anni 60. Da sinistra ing. Orazio Satta Puliga, il progettista Giuseppe Busso, dott. Giuseppe Luraghi e ing. Carlo Chiti.
Gli uomini dell’Alfa Romeo in una foto dei primi anni 60. Da sinistra ing. Orazio Satta Puliga, il progettista Giuseppe Busso, dott. Giuseppe Luraghi e ing. Carlo Chiti.
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Per tutti è l'ingegnere, anche se non riuscì mai a conquistare tra i banchi dell'università quel titolo che, comunque, guadagnò con merito sul campo. Giuseppe Busso è l'artefice e il maestro di quella supremazia meccanica e tecnica che le Alfa Romeo acquistarono nel secondo dopoguerra, sia su strada che in pista. Il suo nome, tra gli appassionati e non, viene legato al motore V6 di Arese che tutto chiamano semplicemente: Busso. Quel rumore inconfondibile, metallico e profondo, come il gemito di una bestia feroce con gli occhi iniettati di sangue; quella progressione corposa, maestosa e inesorabile; questo è il suo figlio prediletto, un propulsore che ha equipaggiato le più esclusive vetture del Biscione fino ai primi anni del Duemila. Il mitico progettista, dunque, merita un capitolo speciale all'interno del libro dell'auto italiana, perché ha reso il "made in Arese" una marchio unico al mondo.

Fiat, Alfa e una guerra mondiale

Giuseppe Busso nasce a Torino nel 1913, quando la città piemontese è già un simbolo delle quattro ruote, nonché la capitale italiana del motore a scoppio. Ovviamente, dopo aver conseguito il diploma di perito industriale, Busso intreccia i fili del suo destino con la Fiat, dove entra in qualità di calcolatore all'ufficio tecnico motori aviazione, ai tempi in cui l'azienda degli Agnelli sviluppa persino ambizioni aeree. Dopo aver assaggiato il mondo dell'aria, per Busso è tempo di tornare a terra, anche se la Fiat non lo lascia sperimentare con le quattro ruote, relegandolo alle rotaie dove fa parte di una squadra di progettazione di motrici.

Nel 1939, però, arriva la chiamata della vita, quella che si rivelerà l'amore di una vita intera: l'Alfa Romeo. A Milano hanno bisogno di lui, gli hanno già preparato una scrivania nel reparto progettazione di vetture da corsa, per lavorare al fianco del famoso ingegnere Orazio Satta Puliga, un vero maestro e punto di riferimento del settore. Quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, Busso collabora con l'ingegnere spagnolo Wilfredo Ricard e completa gli studi, tramite dispense e pubblicazioni del Politecnico di Milano, diventando così progettista qualificato.

Da Ferrari al ritorno in Alfa

Finita la guerra, Giuseppe Busso viene sedotto dalla Ferrari, un'azienda giovane e ambiziosa. Gli stimoli non mancano e Maranello sembra un'isola felice, dove si getta immediatamente a lavorare sulla 125 S. Sulla sua strada però c'è Giochino Colombo, un altro progettista di chiara fama, con il quale si scontra. Così, il matrimonio con il Cavallino dura ben poco. Fortunatamente ad aprirgli di nuova la porta, c'è l'Alfa Romeo. Il nuovo trasferimento a Milano è indolore e il secondo sodalizio diverrà più produttivo e scintillante di quello precedente.

Alfetta
L'Alfetta del 1972

Sotto la sua egida e la sua progettazione, nascono delle pietre miliari della storia del costruttore di Arese: la 1900, la Giulietta, la Giulia e l'Alfetta. Senza dimenticare la Montreal e la Matta, auto speciale e uniche al tempo stesso. Il suo più grande lascito, per il quale tutti lo conoscono, è però quel sei cilindri a V, 60 gradi tra le bancate, costruzione interamente in lega leggera che per tutti è il V6 Busso. Debutterà sulla grande ammiraglia Alfa 6, come il numero dei cilindri, e andrà a equipaggiare le più raffinate auto del Biscione fino a quando le normative antinquinamento lo permetteranno. Le ultime a fregiarsi del "Busso" sotto al cofano sono le varie 166, 156 GTA, 147 GTA e GT.

Busso e i suoi gioielli

Non c'è soltanto il V6 tra le più note creazioni del Busso in Alfa Romeo, perché è suo anche il quattro cilindri con basamento in ghisa della 1900, al pari del bialbero integralmente in lega leggera che per quattro decadi ha equipaggiato le Alfa “Nord”, quelle di Arese, per intenderci. Hanno la sua firma anche il sei cilindri in linea della 2600 e il V8 degli anni Sessanta. Il suo più grande rammarico, invece, è quello di non essere riuscito a imporsi con il progetto di un veicolo a trazione anteriore, che né Ferrari né Alfa assecondarono. La delusione fu doppia quando per l'Alfasud fu chiamato a dirigere l'ufficio tecnico, l'austriaco Rudolph Hrsuka, mentre a lui venne bocciato anche quello di un'auto intermedia da collocare tra la compatta di Pomigliano e l'Alfetta.

In ogni caso, l'uomo aveva dato tutto per la cause del Biscione e nel 1977 andò in pensione con il massimo degli onori. Il 3 gennaio del 2006, ad Arese, Giuseppe Busso muore, dopo aver passato una vita nel cuore dell'Alfa, come il titolo del suo libro, e per aver fatto battere ancora di più quello degli alfisti.

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