
La sconfitta di Alberto Nagel decretata dall'assemblea degli azionisti di Mediobanca non è solo il rigetto di un'operazione, è la fine di un'impostura. Quando un manager ignora il dissenso dei suoi azionisti, quando insiste con un progetto che non ha più sostegno, quando mette il proprio disegno personale davanti alla legittimità della propria base sociale, allora ha già smesso di essere un leader. È diventato un monarca decaduto, aggrappato a un potere che non gli appartiene più. Il voto contrario alla sua proposta - netto, inequivocabile - segna un momento di verità. Perché non si tratta solo di contare i voti. Il punto è che Nagel ha cercato il confronto, lo ha imposto, lo ha trasformato in un plebiscito sul proprio ruolo, ed è stato respinto. Quando il corpo elettorale ti volta le spalle, in ogni vera democrazia la conseguenza è una: si va a casa.
Ma la nostra non è una cultura della responsabilità. È ancora, troppo spesso, una cultura del comando. E Mediobanca, la vecchia Mediobanca di Enrico Cuccia, è stata per anni il tempio di questo costume: dove i manager non rispondono agli azionisti ma li guidano, li indirizzano, li tollerano. Dove l'amministratore delegato è il custode di un'eredità intoccabile, più che il propulsore di volontà mediate. Dove si amministra il consenso con telefonate e relazioni personali, non con trasparenza e legittimazione.
Nagel ha incarnato questo modello fino in fondo. Lo ha modernizzato, certo, professionalizzato, razionalizzato. Ma senza mai romperlo. L'ha semplicemente attualizzato: meno circoli e più conference call, meno sussurri e più slides. Ma la sostanza è rimasta: il potere si gestisce al vertice, e il vertice non si discute. Il caso Generali è solo l'ultimo capitolo. È lì che si è rivelato lo scollamento tra governance formale e potere reale. Nagel ha agito come se il consenso fosse scontato, come se gli azionisti fossero un adempimento. Ha trasformato la sua visione in necessità storica, il suo disegno in destino inevitabile. E ha perso.
Ma non ha perso una battaglia tattica. Ha perso la fiducia. Ha mostrato, con ostinazione e arroganza, di non voler più ascoltare. Di considerare il dissenso non come un segnale da capire, ma come un ostacolo da rimuovere. Di considerare la propria permanenza al comando come una garanzia, non come una scelta da rinnovare. Questa è l'illusione più pericolosa del capitalismo relazionale all'italiana: credere che i manager siano intoccabili, che i risultati del passato giustifichino ogni atto presente, che le cariche siano legittimate dalla continuità e non dalla fiducia. È un riflesso antico, che viene da lontano. Ma oggi è stanco, inadeguato, obsoleto.
L'epoca in cui un manager poteva guidare una banca ignorando la volontà dei suoi principali azionisti è finita. È finita con la fine dell'uomo solo al comando, con la crisi del mito del gestore-sovrano, con l'emergere di una nuova sensibilità istituzionale che chiede ascolto, trasparenza, rendicontazione. Per decenni, Mediobanca ha fatto scuola nella gestione del potere. Ma ora rischia di fare scuola anche nella sua degenerazione. Il punto non è più chi ha vinto o chi ha perso. Il punto è che il patto tra chi gestisce e chi investe davvero, ovvero i grandi azionisti stabili, si è rotto. E quando si rompe questo patto, la permanenza diventa arbitrio. Nagel ha avuto un merito: ha traghettato Mediobanca fuori dal Novecento. Chi ne scrive lo conosce bene, conosce il suo valore professionale, ne stima i risultati ottenuti, e apprezza quanto ha fatto nell'interesse del Paese. Ma oggi, restando, rischia di minare questa immagine di lui, rischia di ricacciare l'istituto nel passato. Ogni giorno in più che trascorre alla sua guida è un giorno in cui la banca appare sempre meno autonoma e sempre più chiusa in sé stessa, prigioniera di un vertice sordo.
Ciò che serve non è una vendetta, ma una liberazione. Dimettersi non sarebbe una fuga, ma un atto di responsabilità. Un gesto che riporterebbe coerenza tra fatti e conseguenze, tra visione e realtà. E darebbe alla banca un'opportunità nuova: quella di ritrovare un legame vero con i suoi soci, non gestito, non mediato, ma finalmente riconosciuto. Nel mondo anglosassone non ci sarebbe discussione. Chi perde la fiducia del mercato fa un passo indietro, spesso prima ancora che gli venga chiesto. Da noi, si resiste. Ma oggi la resistenza non è più una virtù. È un'ostinazione sterile, un rinvio che logora l'istituzione più di quanto protegga l'uomo.
L'era del comando senza consenso è finita. E, con essa, deve chiudersi anche la parabola di chi quel comando ha cercato di trasformarlo in regno.
Per il bene della banca, per rispetto degli azionisti, e per un principio semplice quanto rivoluzionario: che nessuno, nemmeno il più longevo degli amministratori, può essere più forte della volontà di chi lo ha messo lì.