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Dennis Rodman, il "nessuno venuto dal nulla" che resuscitò con il basket

Ribaldo, casinista ma anche introverso, talentuoso eppure fragile: la controversa parabola di The Worm (il verme). Con lui nel quintetto titolare i Detroit Pistons conquistarono diversi titoli

Dennis Rodman, il "nessuno venuto dal nulla" che resuscitò sotto canestro
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A Dallas, negli anni Settanta, la vita non è esattamente il Grand Hotel Paradiso se vivi premuto nel ghetto e tuo padre ha levato l’ancora quando avevi soltanto tre anni. La scuola è tutt’altro che un placido ricovero dalle storture inflitte a caso, specie se sei un ragazzino sottile e legnoso, dunque innocuo sul parquet della palestra di basket e sostanzialmente non selezionabile dalla squadra di football. L’idea di integrarsi è un sogno friabile. Il bullismo inferto dai compagni ogni giorno, invece, è tangibilissimo. Le lezioni le segue distrattamente. È iperattivo e incapace di soffermarsi su un problema alla volta. C’è una cosa, però, in cui se la cava benissimo: dinoccolato e scattoso, gioca a flipper divinamente, oscillando senza senso. Quella movenza irrituale gli vale un soprannome poco edificante: The worm. Il verme. Dennis Rodman ancora non lo sa, ma se lo porterà dietro per tutta la vita.

Gli inizi: un homeless di talento

Mollata la scuola comincia a lavorare dentro un aeroporto: paga discreta e zero impicci. Solo che un giorno lo accusano di avere rubato cinquanta orologi. Si apre un processo. Le accuse cadono in fretta, ma la mamma, esausta, lo caccia di casa. Dennis inizia a ciondolare tra un parco pubblico e l’altro. La seduzione dello spaccio pare un’alternativa irresistibile. Poi però la palla a spicchi lo trae in salvo. Le sorelle giocano a basket e, un giorno, una loro amica lo nota mentre sfonda canestri a ripetizione, in un campetto di periferia. Giganteggia senza sudare sugli avversari, dall’alto del suo 2 metri e 3 centimetri. Possiede anche una tecnica notevole.

Fa un provino per la squadra del Cooke County College, Texas. Lo prendono al primo colpo, consegnandoli una borsa di studio. Sul parquet sfrigola tutto il suo talento, ma la scuola è una linea parallela che non vuole saperne di intersecarsi con la sua esistenza. Dura il tempo di sedici partite, poi molla tutto. Torna a Dallas, ma la mamma lo caccia di nuovo. Eccolo di nuovo a galleggiare in strada, senza senso. Un prodigio diluito dalla mancanza di dedizione.

Pistons

Pistons: dal paradiso all’inferno

Una mano lo estrae ancora una volta dai flutti torbidinosi: Lonn Reismann, della Southeastern Oklahoma State University aveva appoggiato le natiche sui gradoni della palestra di Dallas un paio di volte. Sufficienti per prendere appunti. Gli telefona e Dennis, conscio che quello è già l’ultimo treno utile, vola in un posto che fatica tutt’oggi a sradicare il seme del razzismo.

Lui però gratta via anche i pregiudizi più riottosi imponendosi sotto canestro. Risulta per due stagioni consecutive il miglior rimbalzista del torneo e la squadra diventa gradualmente un’estensione della famiglia che non ha mai avuto. Gli anni che scorrono intensificano il suo talento. Fino al giugno del 1986, quando il telefono che trilla gli consegna la prima grande chance: scelto dai Detroit Pistons. I supporters mugugnano. Non ne hanno mai sentito parlare. Glielo chiede anche un giornalista: "Ma tu chi sei? Da dove vieni?". E lui, serafico: "Sono un nessuno che viene dal nulla". L’altra svolta fortunata della sua esistenza ha il volto benevolo di Chuck Daly, il coach. Capisce subito che Dennis è un ghermitore di rimbalzi come nessun altro. Ne smussa il carattere, lo coccola e lo striglia. Diventa per lui il padre che era sempre mancato.

Lo spirito della squadra identifica alla perfezione il credo di Rodman: dominare l’avversario con ogni mezzo utile. Psicologicamente, sfinendolo con il trash talking. Fisicamente, mettendo su un circo di colpi proibiti. Mediaticamente, sfidandolo con ribalderia: "Larry Bird? Fosse stato nero – dice riferendosi all’asso dei Boston Celtics – parleremmo soltanto di un buon giocatore". Apriti cielo. Le emittenti di mezza America gli danno addosso. I compagni però lo difendono. Nasce in fretta la leggenda dei "Bad Boys". Sono gli anni che li vedono opposti ai Lakers di Magic Johnson: è una Nba scintillante e Rodman, all’apice del suo successo, fa da gioiello della corona.

Con lui nel quintetto titolare i Pistons premono titoli in bacheca. I tifosi giubilano. Dennis viene eletto miglior difensore della stagione nel 1990. La gente lo idolatra, lo sfrega come una reliquia, gli rivolge giaculatorie imploranti. Improvvisamente il nessuno venuto dal nulla è diventato qualcuno. Il contrappasso però è sempre in agguato. Rimbalzando contro un soffitto che non aveva mai esplorato comincia a precipitare rovinosamente.

Quando Daly molla la squadra lui si sente spezzato a metà. Perso il suo punto di riferimento, si infila in un tunnel di comportamenti nonsense. Si fa espellere gratuitamente. Evita di presentarsi agli allenamenti. Tira tardi la sera, perso tra le nebbie di festini poco edificanti. Una sbandata che rischia di non conoscere ritorno. In un giorno di febbraio del ’93, seduto in macchina in un parcheggio poco distante dalla palestra di allenamento, accarezza la canna fredda del fucile che ha riposto sul sedile del passeggero. Se lo punta sotto la gola. Chiude le palpebre. Non preme. Alza la radio e si mette a dormire.

Spurs, un nuovo (convulso) inizio

Nel 1993 chiede di essere ceduto. Va ai San Antonio Spurs, risoluto a sfoggiare una nuova versione di sé. Capelli colorati, piercing, tatuaggi: il pubblico forse non è pronto per lo show, ma freme ugualmente. Fuori dal campo intraprende una vaporosa relazione con Madonna. Sul parquet, invece, ricade nelle sue scorribande: in tredici mesi raccoglie una quantità disumana di provvedimenti disciplinari. Espulsioni, falli tecnici, condotta scorretta. La squadra non lo sopporta più. Il pubblico inizia a detestarlo. L’ultima occasione è un toro da prendere per le corna.

Bulls, l’ultimo treno

Phil Jackson cerca un rimbalzista con gli ammennicoli per completare un team poderoso. L’ambiente storce il naso, ma la scelta ricade proprio su Dennis. Con Michael Jordan, contro ogni logica, formerà un duo letale e complementare: uno difende divinamente, l’altro infilza. Chicago scala in fretta le marce verso l’apice e lui si ritrova. Ancora una volta, è la comparsa di una figura paterna – Jackson – a rimetterlo in carreggiata. Ma quando il padre naturale ricompare improvvisamente dopo trent’anni di latitanza, Rodman va di nuovo in cortocircuito. Si allontana ancora di più dalla madre, dalla ex moglie e dai figli. Si attacca alla bottiglia per limare le bave di quei sensi deturpati. Gradualmente i Bulls sfaldano la squadra. I titoli di coda si srotolano impietosi.

Bulls

La Hall of Fame, i Mavericks e il dittatore coreano

C’è tempo, ancora, per qualche sussulto finale. Firma con i Dallas Mavericks, ma è un giro a vuoto. Intanto lo inseriscono nella Hall of Fame della Nba: una di quelle iniezioni di autostima che alimentano un carattere ossimorico, megalomane e introverso. La sua lucida follia lo porterà fino in Corea del Nord, per conoscere il dittatore Kim Jong Un, solo per curiosità, senza saperne nulla. Diventano amici e i media, ancora una volta lo mettono alla gogna. Lui un po’ fa spallucce, come sempre, un po' accusa.

L’eterno dilemma interiore del fragile homeless resuscitato dalla palla a spicchi.

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