Stenio Solinas
nostro inviato a Mumbai (India)
«Ecco, qui stiamo girando Rang de Basanti, unopera patriottica... Vedi, quello è un patibolo, le impiccagioni da parte degli inglesi durante la lotta per lindipendenza... È il film con il più grande budget dellanno e il regista è Rakesh Mehra. Il più talentuoso del momento. Ti aspetta per unintervista subito dopo la pausa pranzo. Quello lì, invece, è un tempio ricostruito per un serial tv, non chiedermi quale perché ce ne sono talmente tanti... Lì invece cè lo studio dove si registra The Great Indian Comedy Show: va in onda tutti i giorni, Shekhar Suman è lattore che lo conduce. Ti aspetta anche lui, è una star, ma è molto simpatico. Noi qui forniamo tutto, dai sarti agli elettricisti: cè uno staff di 50 persone, 10 locations in contemporanea, cinema o televisione non cè problema. Il regista ci comunica ciò di cui ha bisogno e noi glielo facciamo trovare. Per fare un film ci vogliono dai 40 ai 50 giorni. In India se ne fanno circa 800 lanno, di cui la metà qui a Bollywood. Noi e Film City siamo gli studios più grandi».
Filmistan Studio sta a Mumbai ovest, sulla Railway Station Road, un paio dore di macchina dal centro. Fuori cè la Mumbai di sempre, catapecchie, bidonville, bazar, sporcizia e miseria, dentro cè la finzione cinematografica allennesima potenza. Anche Bollywood, infatti, non esiste, è finta, è un marchio, un nome, unastrazione: la realtà sono tanti altri piccoli Filmistan Studio sparsi per la città e per il Paese (in Bengala, nel Kerala, nel Tamil Nadu) lì dove lintraprendenza, lo spazio e lintelligenza riescono a ritagliarsi spazi da convertire al business in celluloide. A fare il resto ci pensa la tecnica e la creatività, gli uffici di postproduzione dove il computer è re e gli effetti speciali la fanno da padrone: eroi che combattono librandosi nellaria, foreste nelle quali si fugge, laghi davanti ai quali ci si ama. Tutto o quasi è virtuale e basta fare un giro nel quartiere di Branda, dove hanno sede gli studi di Rajtaru, da 15 anni il re cinematografico del settore, per rendersene conto.
Agli indiani il cinema piace, è sempre piaciuto. È la tradizione orale dei grandi poemi che da verbo si è fatta azione e suono. Cantano tutti nei film indiani: negli anni Trenta si arrivò al punto che in Indra Sabhaal cerano qualcosa come 72 motivi musicali... Questo ne spiega da un lato la peculiarità, dallaltro la difficoltà a uscire da un mercato locale, per quanto gigantesco (lunica eccezione, duratura nel tempo, è stata il successo dei film indiani in Unione Sovietica), difficoltà che in questi ultimi anni non ha comunque impedito a una piccola e nuova cinematografia indiana di trovare una sua audience in Occidente.
La mostra che riscuote più successo a Mumbai di questi tempi è alla Jehangir Art Gallery e si intitola «Preview to Revisualing India», una sorta di «come eravamo» cinematografico. È una raccolta dagli archivi Osian e dalla biblioteca del Cinema e delle Arti popolari e spazia dalle cartoline, i calendari, le locandine dei tempi del muto ai poster, alle fotografie, al ruolo della donna, ai grandi attori dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Osian è la stessa società che nei mesi scorsi si è portata via dallasta newyorkese di Christies dedicata a Marlon Brando alcuni dei lotti più ambiti: la sceneggiatura originale dellAmmutinamento del Bounty, tre lettere di Francis Ford Coppola ai tempi di Apocalipse Now, la corrispondenza con attori come Frank Sinatra, Paul Newman, Vivien Leigh, sculture, collezioni di video... Adesso ha in progetto di aprire ununiversità delle arti visive a New Delhi e di trasferire lì gli archivi nazionali e internazionali. «Per gli studenti avere accesso diretto alle fonti originali dellarte è qualcosa che nessun insegnante può eguagliare» dice Neville Tuli, che per la Osian si occupa delle nuove acquisizioni.
Cominciò tutto quasi un secolo fa, il 3 maggio del 1913, quando al Coronation Theatre di una Bombay non ancora Mumbai venne proiettato Raja Harishchandra, il primo film muto indiano. Quando, ventanni dopo, arriverà il sonoro ne erano stati prodotti più di 1300 e in città cerano almeno una trentina di società cinematografiche. Da allora, e con lesclusione del periodo bellico, è stata una continua escalation e oggi Bollywood, il marchio, il nome, lastrazione Bollywood, produce qualcosa come mille film lanno, dà lavoro a tre milioni di persone, ha 100 milioni di spettatori a settimana...
«Il mio non è un film masala» dice un po piccato Rakesh Mehra, il regista di Rang de Basanti. La pausa pranzo è finita, e questo ragazzone che farebbe la gioia di uno stilista occidentale malato di orientalismo, capelli lunghi, ondulati, barba non curata, occhi scuri, ha il suo ruolo di intellettuale da difendere. «Masala» è il condimento di un cibo, speziato, piccante e rende abbastanza bene lidea di un cinema che cerca di accontentare più palati possibili. «E non è nemmeno un film patriottico. Non so chi glielo abbia detto, ma è un film sulla giovinezza, una storia corale, ispirata sì dal passato, ma che si svolge ai nostri giorni. Il titolo è un verso poetico, potrebbe significare battaglia per la libertà, oppure viva la rivoluzione. Uscirà lanno prossimo».
Fra gli interpreti principali cè Aamir Khan, il protagonista di Laagan, film a suo tempo candidato allOscar, e ora di The Rising, sullammutinamento antibritannico del 1857, il divo più famoso del momento insieme con Amitah Bachchan. Questultimo è stato il protagonista di Aks, il primo e finora unico film di Mehra, fino a quel momento regista di documentari e di spot commerciali, la storia truce di un poliziotto in lotta contro chi cerca di impadronirsi della sua anima. Se questo da un lato ne testimonia il talento registico, dallaltro getta una luce particolare sul meccanismo divistico che sta dietro al cinema indiano. Qui un attore famoso fa qualcosa come sei, sette, dieci film lanno, conduce programmi televisivi, è una sorta di macchina in perenne corsa. «Sì, lavoriamo molto» ammette Shekhar Suman in una pausa del suo show televisivo. «Il cinema indiano è qualcosa di diverso da quello europeo o americano, ha più a che fare con il sogno, lemozione, che con la vita. È una sorta di riscatto, ma anche di divertimento. È per questo che è ripetitivo: cè un buono, si innamora, qualcuno si oppone allamore... Ti dà popolarità, certo: se non avessi fatto Utsav al cinema, la storia di un bramino e di una cortigiana, non mi si sarebbero spalancate le porte della televisione. Ma a fare questo show, in cui prendo in giro i politici, faccio imitazioni, commento i fatti del giorno, cè, come dire, più vita».
Shekhar Suman dice una mezza verità, perché se è vero che una buona parte del cinema indiano è intrattenimento sentimental-musicale, non ne va sottovalutata la capacità di essere anche lo specchio sul quale si riflettono i cambiamenti del costume e del carattere. Nel libro-inchiesta più interessante appena uscito su Mumbai, A Maximum City di Sukethu Mehta, su quasi seicento pagine un buon quarto è dedicato al rapporto fra criminalità e industria cinematografica, un rapporto da un lato fatto semplicemente di affari, di investimenti, ma dallaltro esemplare nel delineare il nuovo modello urbano in auge. Con una classe politica al minimo grado di credibilità e uneconomia immateriale ma reale, finanziaria, borsistica, tecnologica, un alto tasso di violenza, paradossalmente bilanciato dallo scarso valore dato alla vita in sé, il panorama è quello di una gioventù da beer-bar, i locali dove leffetto strip-tease delle ragazze che ballano viene ottenuto rimanendo rigorosamente vestite e dove i maschi mimano comportamenti gangsteristici (la «donna del capo», via via conquistata a suon di soldi e che poi danzerà idealmente solo per lui...) visti al cinema ma divenuti ormai di uso comune.
(4.Continua)
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