
Nel panorama milanese, dove ogni settimana nasce un “nuovo concetto di cucina”, IYO resta un caso raro: non solo perché è l’unico ristorante orientale in Italia a vantare una stella Michelin, ma anche perché è riuscito a far dialogare Giappone e vino senza che nessuno dei due perdesse la faccia. Da quasi vent’anni il ristorante di Claudio Liu ha costruito una cantina che oggi è diventata un piccolo archivio liquido della contemporaneità.

Ne è custode Danilo Tacconi, head sommelier con il gusto per l’equilibrio più che per l’effetto. Sotto la sua supervisione la carta ha superato le ottocento etichette, ma la quantità non è il punto: il valore sta nel disegno, nella coerenza di una selezione che mescola rigore e curiosità. Lo Champagne, per esempio, occupa il centro della scena, ma non si tratta del solito elenco di etichette blasonate. Accanto alle maison storiche ci sono récoltants-manipulants scelti per la precisione espressiva del terroir e per la loro capacità di reggere il confronto con sashimi, wagyu e tartufo.
La lista delle bollicine francesi è un atlante: Montagne de Reims, Côte des Blancs, Vallée de la Marne, Aube. Blanc de Blancs, Blanc de Noirs, Rosé, dosaggio zero. Tutto con l’idea di abbinare, non di impressionare. L’Italia delle bollicine risponde con Franciacorta e Trentodoc, ma anche con incursioni più periferiche, comprese alcune produzioni slovene da metodo ancestrale. È una sezione pensata non per il collezionista, ma per il bicchiere giusto al momento giusto.

Quando si passa ai fermi, la geografia si allarga. I bianchi vengono da mezza Europa, dagli Chardonnay di Borgogna ai Riesling della Mosella, dai Timorasso dei Colli Tortonesi ai Carricante dell’Etna. Tutti scelti per accompagnare le due anime del menu: la leggerezza cruda e la profondità delle cotture a carbone. Ma l’anima rossa della cantina è quella che sorprende di più. In un ristorante dove domina il pesce, la sezione dei rossi è ampia e strutturata. Segno che qui non si ragiona per luoghi comuni, ma per armonie.
Tacconi ha costruito una collezione di rossi che privilegia freschezza e definizione: Borgogna in testa, con verticali di Gevrey-Chambertin, Chambolle-Musigny e Vosne-Romanée, ma anche Barolo e Barbaresco da vigneti storici, Brunello e Bolgheri, fino ai grandi Bordeaux che continuano a raccontare l’eleganza senza tempo del Cabernet. Le verticali sono una passione della casa: più annate consecutive di singoli cru che permettono di leggere l’evoluzione dei vini nel tempo. Bottiglie che spesso i clienti prenotano e attendono di stappare per l’occasione giusta, come si farebbe con una promessa.
Accanto a tutto questo, la carta dei sakè – ventotto etichette da diverse prefetture del Giappone – rappresenta una parentesi a sé. Qui il criterio non è enciclopedico, ma gastronomico: Junmai, Daiginjo, Ginjo, Yamahai e koshu selezionati per la compatibilità con i piatti, serviti a temperature variabili e in calici da vino. È un piccolo laboratorio dentro il ristorante, dove Dassai e Tatenokawa convivono con etichette meno note, ma perfettamente accordate all’umami della cucina di IYO.
Più che una collezione, la cantina è un sistema vivente, aggiornato in base alle disponibilità e alle importazioni, con bottiglie rare che appaiono e scompaiono dal menu come pesci di stagione. I clienti abituali lo sanno e spesso affidano a Tacconi la custodia delle loro bottiglie personali, in attesa del giorno giusto. È un gesto di fiducia, ma anche il segno che qui il vino non è un orpello da carta dei vini: è parte integrante dell’esperienza.
In un mondo in cui i pairing si
costruiscono per stupire, IYO continua a usarli per capire. E forse è questo il suo segreto: la capacità di far convivere un Riesling renano e un Daiginjo con la stessa naturalezza con cui mette insieme oriente e occidente.