Il volo segreto da 41mila metri: la storia dell’uomo che ha battuto Baumgartner (ma nessuno lo ricorda)

Nel 2014 Alan Eustace superò il precedente record di Felix Baumgartner, ma oggi quasi nessuno se lo ricorda: cronaca di un'impresa mondiale vissuta con spirito discreto

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Non sempre gli eroi hanno bisogno che le loro gesta vengano gridate. Alcuni si limitanto a compierle e basta, quasi glassandole di silenzio, come se la gloria fosse un dettaglio superfluo. È il caso di Alan Eustace, 57 anni, vicepresidente senior di Google, l’uomo che nel 2014 ha battuto il record di Felix Baumgartner volando – o meglio, precipitando – da oltre 41.419 metri di altezza. Lo ha fatto senza grandi sponsor, privo di elmetti griffati, senza la regia dilagante della Red Bull. Solo, nel deserto del New Mexico, infilato dentro una tuta bianca rigonfia come quella di un astronauta. Si è lasciato cadere nel vuoto per quattro minuti e mezzo. E ha toccato la Terra come se non avesse poi fatto granché: in realtà aveva appena compiuto il salto più alto nell'intera storia dell'umanità.

È il 24 ottobre 2014. L’alba americana è limpida, tagliente. Eustace è appeso ad un pallone stratosferico gonfiato di elio, sottile come seta, ingombrante come un palazzo di dieci piani. Sale lentamente, un metro al secondo, fino a superare i 40.000 metri. Niente musica, telecamere in mondovisione, né applausi carichi di tensione. Solo il crepitio dell’altimetro e il respiro meccanico che rimbalza dentro il casco pressurizzato. Sotto di lui, la curvatura azzurra del pianeta. Sopra, la scura e infinita densità del cosmo. In mezzo, il silenzio assoluto.

La preparazione è durata tre anni. Quello di Eustace è tutto tranne che un progetto da stuntman. La sua vuole essere una missione scientifica e artigianale insieme. Il nostro, ingegnere di formazione e sognatore per vocazione, si è messo in testa di costruire una tuta capace di sopravvivere ai -70 gradi della stratosfera e alle pressioni quasi nulle. Niente capsule, niente razzi. Solo lui, il pallone e la gravità. Ha messo insieme un piccolo team di tecnici e inventori, i Paragon Space Development, gente abituata a lavorare nel retrobottega dell’avventura umana. Hanno cucito, testato, pressurizzato, simulato la caduta centinaia di volte. Tutto sottovoce, senza clamore mediatico.

A 41.419 metri, Eustace guarda il mondo per l’ultima volta dall’alto. Poi tira una leva. La corda che lo lega al pallone si stacca, e il suo corpo inizia a cadere. Il primo istante è puro stupore. Poi la fisica prende il comando. Supera la velocità del suono, tocca i 1.322 chilometri orari, più veloce di un proiettile. L’aria vibra, la tuta si deforma, il cuore sfiora le 200 pulsazioni. Non ha controllo, non può aprire il paracadute prima che la densità dell’atmosfera glielo consenta. È solo, una minuscola, irrilevante particella nel vuoto.

Dopo quattro minuti e trentasei secondi di caduta libera, sgancia il paracadute principale. L’impatto con l’aria lo scuote come una frustata. Poi tutto rallenta. La Terra gli torna incontro, dolcemente. Atterra in un campo del New Mexico, tra la sabbia e il silenzio. Nessuna folla, nessuna telecamera, nessuna diretta. Solo il sibilo del vento, il battito del proprio cuore ed un pugno di collaboratori. Ha battuto il record del mondo, ma il mondo quasi non se ne accorge.

“Non l’ho fatto per la fama,” dirà più tardi, con quella voce calma da ingegnere che pesa le parole come codici binari. “L’ho fatto per vedere la Terra da una prospettiva diversa.” È forse questo il segreto di Alan Eustace: aver osato come pochi e averlo fatto senza vanità. In un tempo in cui ogni gesto estremo si misura in visualizzazioni, lui ha scelto di sottrarsi al rullo compressore mediatico.

Oggi il suo nome è poco più di una nota a piè di pagina nella storia dell’esplorazione umana.

Ma là, dove l’aria si dissolve e la luce diventa curva, Eustace ha visto ciò che pochi hanno potuto scorgere. E in quella caduta perfetta, solitaria, ha firmato il manifesto di una grandezza discreta. Perché a volte l’eroismo non sta nell’atterrare, ma nel vincere la paura di lasciarsi andare.

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