Biagi, saper trasformare un dettaglio in assoluto

Il pittore di Viareggio, che aderì al movimento "Metacosa", ha lo stesso sguardo mentale di Gnoli

Biagi, saper trasformare un dettaglio in assoluto
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Quattordici anni fa, era il 2011, da curatore del Padiglione Italia della Biennale d'arte di Venezia, nell'anno celebrativo del 150mo dell'Unità d'Italia, riuscii in un'impresa folle e portentosa. Ribaltando l'abituale concezione che ho definito «mortuaria» per cui un ristretto numero di critici e curatori delimita un ristretto canone di artisti celebrati, coinvolsi 300 «appassionati incompetenti» in altrettanti «accoppiamenti giudiziosi». Chiesi ad autorevoli testimoni del nostro tempo, letterati, filosofi, registi, uomini e donne della moda, della cultura, del teatro, di indicare liberamente un artista che per loro fosse rappresentativo del decennio appena trascorso. L'esito di quella straordinaria chiamata fu la Biennale più democratica di sempre, un padiglione che non apparteneva ai critici, men che meno al curatore, ma che veniva restituita agli artisti. Quell'esperimento eccezionale fu la conferma di una formula che ho teorizzato anche in un mio libro, L'arte è sempre contemporanea: l'arte è una forza in divenire, nessuno può ritenerla «contemporanea» perché più o meno avanzata o sperimentale. Non c'è altro modo di essere contemporanei che essere qui e ora; così accade che ci sia una contemporaneità anche in ciò che è esistito e che continua a vivere. Il Cristo morto di Mantegna è nostro contemporaneo quanto i tagli di Lucio Fontana. Gli artisti sono contemporanei quando parlano a noi, che li ammiriamo oggi.

E certamente contemporaneo è Giuseppe Biagi (Viareggio, 1949), di cui «La Milanesiana» ideata e diretta da mia sorella Elisabetta si cura di inaugurare questa personale dedicata ai suoi più recenti lavori. Ospitai Biagi nella Biennale del 2011, su suggerimento di Mina Gregori, elegante e colta storica dell'arte, che così motivò la sua scelta: «Mi piacciono gli elementi di cui si compongono le sue rappresentazioni recenti, lo spazio, le figure, gli animali e le cose che vi si immergono, e la luce diafana che le illumina. Lo spazio evoca un infinito non trascendentale, ma che impone alle figure che lo percorrono una condizione di precarietà che apre interrogativi e provoca trasalimenti».

Gli stessi interrogativi e trasalimenti provai io quando, diversi decenni prima, incontrai per la prima volta Giuseppe Biagi, insieme con Lino Mannocci e probabilmente con l'amico Arialdo Ceribelli: il trio, sotto l'egida di un critico rispettabile come Roberto Tassi, venne a presentarmi i lavori del gruppo che si andava formando sotto il nome di Metacosa. Devo confessare che allora, forse per la mia naturale antipatia per movimenti e correnti, forse per distrazione, non colsi immediatamente la portata del cenacolo che andava ad affermarsi attorno al magistero di Gianfranco Ferroni. Fortunatamente ebbi una seconda possibilità, richiamato all'attenzione da una sensibile gallerista bresciana, Chiara Fasser (a cui si deve anche il sostegno dello scultore Giuseppe Bergomi, fiancheggiatore della Metacosa) e in seguito dalla cura costante di Ceribelli. Da allora più volte mi sono occupato di quasi tutti i componenti del gruppo, da Giorgio Tonelli a Giuseppe Bartolini, da Luino a Mannocci, Ferroni, Biagi. Ricordo un incontro con Biagi, favorito da Graziella Pasquinucci, a Viareggio, dove lavorava: osservando le opere di Biagi nel suo studio, immediata avvertii la profonda vicinanza con un altro pittore che molto ho amato, e che oggi vanta le quotazioni più alte sul mercato: Domenico Gnoli. Biagi e Gnoli hanno lo stesso sguardo mentale, capace di trasformare un dettaglio, e uno spazio, in poesia, in assoluto. Una disposizione che è la stessa di Antonio da Crevalcore, di Giotto, di Carrà, di Morandi, tutti ugualmente contemporanei in una linea che arriva a Gnoli e Biagi.

Le opere che «La Milanesiana» espone alla Galleria Ceribelli di Bergamo mi riportano alla «luce diafana» evocata da Mina Gregori, in paesaggi notturni dalle luci nordiche, che rimandano a Munch, Diefenbach,

Hammershoi, ai romanzi del premio Nobel norvegese Jon Fosse. Improvvisi, nella natura, un'apparizione magica, un filo di fumo a segnalare una presenza, o forse è soltanto un fantasma, «e io inseguo la visione che mi elude».

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