BOB DYLAN Seduzioni liriche di un impoetico

Corsi, saggi, candidatura al Nobel. Ormai più del rock è la letteratura a celebrare il talento dell’«illetterato picaro di Duluth». Intanto esce «Lyrics», la prima raccolta completa dei suoi testi

Al Commons, una delle molte coffee house incastonate nel Greenwich Village, si era parlato di tutto e d’altro ancora - i diritti dei neri e l’ennesimo arresto di Luther King, il Vietnam e l’invettiva con cui Eisenhower aveva bollato, anni prima, lo strapotere dei fabbricanti d’armi - nel modo farraginoso e tumultuante che è tra i limiti e le benedizioni della gioventù. Lui, Bob Dylan, beveva la sua birra col cervello in fermento. Gli venne da scrivere, e «il tuo silenzio ti tradisce», annotò su un tovagliolo. Sull’aprile newyorkese spirava il fiato lento della controra, e gli frullò nella mente la colomba del Genesi, che esce dall’arca di Noè e la terra è un lago calmo e inospitale. Scrisse, di getto: «Quanti mari deve percorrere una colomba/ prima di dormire sulla sabbia?/ La risposta, amico, vola nel vento».
Blowin’ in the wind uscì con l’estate e fu un inaudito successo. «Benvenuto nel ventesimo secolo», sentenziò Dave Van Ronk, «brucio d’amore per il re dada», declamò Joan Baez. Peter Seeger annunciò che «quel ragazzo dev’essere un genio» e Allen Ginsberg esultò: «Il testimone è stato passato dai poeti beat alla nuova generazione». Lui, spiazzato da tanto trionfo, si esibì nel gioco che più di tutti gli è caro: smitizzarsi, celandosi dietro un’impassibile normalità. «Cosa volevo dire? - rispondeva ai cronisti -. Soltanto quello che ho detto: le risposte alle grandi domande volano nel vento, prima o poi cadranno giù ma nessuno le raccoglierà, e torneranno a volare lontano da noi».
Sono passati quarantatré anni e il mito di Dylan, sessantacinque anni il 24 maggio, resiste alle fauci del tempo. È il mondo delle lettere, ormai, a celebrarne il talento, più ancora di quello del rock: negli atenei americani corsi e tesi di laurea accostano Dylan a Blake, a Rimbaud e ai grandi del simbolismo, un comitato di docenti universitari lo propone, di tanto in tanto, per il Nobel, e a rendere omaggio al cantore che - scrisse Bruce Springsteen - «ci ha liberato la mente come Presley ci aveva liberato il corpo» sono oggi Sam Shepard, Martin Scorsese e Salman Rushdie, che in Dylan saluta «una fonte d’ispirazione per ogni genere di scrittore». Non stupisce, dunque, questo monumentale Lyrics 1962-2001 (Feltrinelli, pagg. 1.200, euro 60), che per la prima volta raccoglie l’intera produzione dylaniana nelle limpide traduzioni di Alessandro Carrera, autore pure delle note che d’ogni brano raccontano la genesi, i moventi e le ascendenze letterarie.
Che, infatti, Dylan avesse a che fare con la poesia, più ancora che con la canzone tout court, lo si intese già con The freewhelin’ Bob Dylan, il suo secondo album. Ezechiele e il Vangelo di Matteo s’affiancavano, tra gli spunti ispiratori, a Dante e Baudelaire, Cummings e Ginsberg offrivano incentivi preziosi ma su tutti sovrastava l’Apocalisse, il cui furore visionario splendidamente s’accordava agli estri dylaniani. Come nell’incubo, davvero apocalittico, di A hard rain’s a-gonna fall, suggerita dalla crisi di Cuba: «Ho visto un neonato circondato da lupi feroci/ e un ramo nero dal quale colava il sangue/ ho visto una stanza piena d’uomini dai martelli sanguinanti/ e diecimila persone che parlavano con lingue impedite/ ho visto armi da fuoco e spade affilate nelle mani di bambini:/ è un’ardua, ardua, ardua pioggia quella che cadrà».
È lo stesso Dylan, del resto, a dirci dei suoi avi letterari, nell’autobiografia da poco uscita a cura dello stesso Carrera. Di quando qualcuno gli consigliò di leggere Faulkner e lui capì che «è difficile mettere sentimenti profondi nelle parole: è più facile scrivere Il capitale». Poi ci fu la scoperta di Kerouac, «quelle frasi senza respiro, dinamiche, da poesia bop», e di Byron, Coleridge, Withman. E ancora Fellini e Picasso, un vivaio di sensazioni finora insondate: «Stavo uscendo dalla pastura, sentivo di essermi sempre tirato dietro un vagone vuoto che solo adesso cominciavo a riempire».
Il solitario, illetterato picaro di Duluth, Minnesota, trova così i propri maestri. I grandi della penna e delle arti sono i monumenti alla cui ombra Dylan avvia il suo cammino di «esemplare figura dionisiaca», dirà di lui Joyce Carol Oates: in un delirio di metafore e d’allegorie che lo condurrà a surclassare i suoi primi modelli, Woody Guthrie, Hank Williams, Robert Johnson, Leadbelly, dai quali ben presto lo dividerà l’incolmabile distanza che separa i cantastorie dai poeti. In The times they are a-changin’ s’uniscono all’elenco Brecht, i Vangeli e i Profeti, in Another side of Bob Dylan, Yeats e Hitchcock, insieme a un vigile gusto per l’ironia: «L’uomo delle foreste mi chiese/ quante fragole nascono in mare/ risposi: per quanto ne so/ tante quante aringhe nascono nei boschi».
Ce n’è a sufficienza per procurare allo schivo ragazzo del Minnesota, dal viso sghembo e dalla buffa voce nasale, l’alone del mito. E ad attribuire inattese militanze al «bambino menestrello» che sbeffeggia le nequizie dei potenti, scioglie «le splendenti campane della libertà» e rivendica i diritti dei miseri, cantando «i guerrieri la cui forza è non combattere/ i vinti sulle strade disarmate dell’esilio/ i soldati senza rango, irrilevanti nella notte». Lui non sta al gioco, straniato da congenito anarchismo. Sradicato per indole, rivendica il suo destino erratico, descrivendosi «pietra rotolante» e «misterioso vagabondo». A chi gli offre un premio importante ribatte che «ho impiegato tanto tempo a diventare giovane/ vi prego, portate in vacanza le vostre teste calve», e alla prima laurea honoris causa contrappone versi infastiditi. Per estrema autodifesa occulta i suoi «messaggi» dietro sensatissimi nonsense e, pur consapevole che «le grandi parole sono già state dette, i grandi libri sono già stati scritti», continua ad affollare con nuovi ingaggi l’olimpo dei suoi maestri: s’aggiungono Brecht, Poe, Melville, Keats, John Donne, Paolo di Tarso. Non solo: a chi esalta in lui il poeta che è, risponde sornione che «io scrivo su un ritmo di distorsione impoetica», concludendo che semmai «ero un poeta dell’età del ferro, quella del dopoguerra, pur avendo ereditato qualcosa di metafisico da un’èra ormai trascorsa».
Nelle sue preziose annotazioni, Carrera fa emergere l’impasto di cronaca e fantasmagoria, scetticismo e passione, lirismo e asprezza di cui s’alimenta la grandezza dylaniana, e con ciò la fruttuosa ambiguità che, lungi dall’incrinarla, la alimenta. Quello «scandalo del contraddirsi», avrebbe detto Pasolini, che assicura a Dylan il connotato più misterioso, e perciò stregante, della sua vicenda d’artista: in un serrato ping pong tra impegno civile e sua negazione, intimismo ed epopea.

E che la lettura dei testi poetici, tradotti da Carrera senza cedere a tentazioni di rima o di ritmo che ne adulterino l’impatto semantico, conferma con una potenza visionaria, un magistero verbale e una forza di seduzione mai raggiunte, prima o dopo, da altri autori di poesie per canzoni.

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