Letteratura

Dal buio e dal silenzio esce lo scrittore. Le sue armi sono parole che dicono l'indicibile

Drammaturgo, saggista e romanziere, l'autore norvegese era fra i candidati alla vittoria da vent'anni. La sua prosa scarna cerca il senso dell'esistenza. È stato considerato "l'erede di Ibsen e Beckett"

Dal buio e dal silenzio esce lo scrittore. Le sue armi sono parole che dicono l'indicibile

Ha ricevuto la telefonata dell'Accademia di Svezia mentre guidava lungo la costa occidentale della sua Norvegia, vicino a Bergen. È lì, tra i paesaggi fiabeschi dell'Hardangerfjord, che Jon Fosse è cresciuto. Ed è lì che, ancora oggi, poco a nord di Bergen, possiede una casa sul mare: forse, dopo la notizia che il Nobel per la Letteratura del 2023 porta il suo nome, ha fatto retromarcia, è tornato in quella casa e ha festeggiato. O forse ha preso la sua barca e ha fatto un giro nel fiordo. Di sicuro, l'ha presa... alla Jon Fosse. Infatti ha dichiarato di essere «sorpreso, ma non troppo», anche perché era fra i candidati probabili al premio da una ventina d'anni; d'altra parte, il Nobel per la Letteratura non varcava il confine da 95 anni, ovvero dall'assegnazione alla connazionale Sigrid Undset nel 1928. In tutti questi anni Fosse, che ne ha 64, ha passato la maggior parte del tempo a scrivere: opere di teatro, rappresentate sui palcoscenici di tutto il mondo; saggi; raccolte di poesia; libri per bambini; traduzioni (parte del Faust; poesie di Trakl; Il processo di Kafka...); romanzi, genere nel quale ha esordito, e al quale è ritornato ultimamente, con il successo internazionale della serie Settologia, che l'ha portato in finale al National Book Award 2022 (in Italia la serie è pubblicata da La nave di Teseo, che ha acquisito l'intero catalogo dell'opera di Fosse: i volumi III-V usciranno il 10 ottobre col titolo Io è un altro; per gli ultimi due bisognerà aspettare l'anno prossimo).

Insomma è lì, in quel paesaggio della sua infanzia, in quella Norvegia di malinconia e cupezza, fra i cieli offuscati, gli alberi bui e il mare scintillante di inquietudini dipinti dal suo amato Louis Hertervig (nella cui vita tormentata Fosse si è immerso, in forma di monologo interiore, in Melancholia, pubblicato in Italia da Fandango nel 2009), che lo scrittore ha sperimentato il suo futuro destino di scrittore: scorgere l'invisibile che emerge dalle nebbie, sentire ciò che il silenzio nasconde, come un tesoro. Come ciò che dà senso. Tra il mare e le rocce, il verde e le brume, Jon Fosse ha iniziato a dedicarsi, e lo ha fatto poi per quarant'anni senza sosta, a ciò che ieri - secondo le sue stesse parole, riportate dall'editore norvegese - è stata premiata: «la letteratura che, innanzitutto e primariamente, mira a essere letteratura, senza altre considerazioni».

Questa letteratura, che parte dal romanzo breve (nel 1983, con Raudt, Svart, ovvero «Rosso, nero») arriva presto al teatro, dove il nome di Fosse guadagna la notorietà. Un autore di teatro norvegese non può prescindere da Ibsen, ma il suo sguardo è rivolto piuttosto a Beckett; infatti la sua prima opera si intitola Qualcuno verrà (si può trovare nella raccolta Teatro edita da Cue Press quest'anno) e non è un atto di irriverenza bensì, come ci ha spiegato su queste pagine in una intervista di qualche anno fa, una scelta dettata dalla «paura della sua influenza». Quando lo diceva era il 2019, e il New York Times lo aveva già definito «l'erede di Ibsen e Beckett». Fosse ha conquistato il pubblico di tutto il mondo con le sue opere, da E la notte canta a Io sono il vento, da Il nome a La ragazza sul divano. È così amato che la scorsa estate, al Det Norske Teater di Oslo, si è tenuta la terza edizione dell'International Fosse Festival: dodici giorni di rappresentazioni. E non aveva ancora vinto il Nobel. E, certo, Jon Fosse non è un autore «facile». Non usa parole complicate, non scrive frasi arzigogolate ma, attraverso una semplicità (solo) apparente, trascina il lettore in un altro mondo: spirituale, profondo, simbolico, addirittura mistico (parole sue). Fosse è religioso. È un cacciatore di senso, un senso che, come ci ha spiegato, si trova nella realtà, ma non in quella immediatamente percepita e descritta: «Quello che scrivo in realtà è una cosa, ma quello che scrivo davvero è un'altra. Come se ci fosse un linguaggio dietro il linguaggio reale: ed è questo linguaggio retrostante, questo linguaggio silenzioso, ma che parla in qualche modo, a essere il più importante».

L'alfabeto del suo linguaggio silenzioso sono fatti comuni, eventi banali, nomi generici (Madre, cane, Sorella...), frasi senza punti e che a volte durano una pagina intera e ripetizioni insistite, come in una musica; e poi c'è l'uso del Nynorsk, la lingua norvegese minoritaria. Jon Fosse è stato maestro di scrittura creativa dell'altro fenomeno della letteratura norvegese degli ultimi anni, Karl Ove Knausgard, il campione dell'autofiction di La mia battaglia (Feltrinelli); e, se non c'è lezione migliore della libertà, è stato sicuramente un insegnante eccellente, visto che i due sono agli antipodi...

Per Fosse il realismo, anche fantastico, è elemento necessario ma non sufficiente: amante di Heidegger e Wittgenstein, attraverso la letteratura cerca quelle radure dove ci conducono i sentieri interrotti. I luoghi invisibili dove la luce possa filtrare. E dove, nel silenzio, possiamo ascoltare la voce di Dio che scende a ballare il tango con noi.

Descansate niño, che continuo io.

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