Buoni pasto, lo sciopero c’è ma non si vede

Per paura della concorrenza molti bar e ristoranti in centro non hanno aderito alla protesta. E fra i milanesi c’è chi si è portato la “schiscetta” da casa

Uno sciopero «invisibile». Solo pochi esercenti, almeno nei locali del centro, hanno detto no ai buoni pasto. La protesta era stata promossa dall’Epam per contestare il vertiginoso aumento delle commissioni sui ticket, passate in poco tempo dal 7 al 10-12 per cento. Una situazione insostenibile, a sentire gli esercenti stessi, come insostenibli stavano diventando i tempi d’attesa per il rimborso: 60 giorni. Eppure al momento i mettere in atto il «no ticket day», c’è chi si è tirato subito indietro. «O tutti o nessuno» è stato il pensiero più diffuso in giro tra ristoratori e baristi.
Lo si capiva andando a sbirciare dietro il bancone: «Una protesta giusta, non si possono pagare cifre così alte per avere rimborsato qualcosa che ci spetta. Ma...». Ma io oggi i ticket li ho ritirati lo stesso. In zona Brera solamente il caffè «El Baverin» ha aderito allo sciopero: «Alcuni clienti hanno chiesto per quanto sarebbe durata la serrata, e poi senza protestare hanno pagato». Un cartello sulla porta avvisava: «Gentile cliente, ci dispiace ma oggi niente ticket». Nonostante l’Epam abbia rilevato una partecipazione superiore al 50 per cento, buona parte dei bar, dei ristoranti e dei fast-food del centro di Milano hanno preferito tenersi stretti i propri clienti.
Come sempre, si è trattato di un gioco in cui ciascuno ha guardato le mosse dell’altro. Il gestore del ristorante «La Rocchetta», in zona Cadorna, chiarisce la situazione: «Fino a sabato mattina sembrava che avessero aderito tutti alla protesta: invece stamani la maggior parte della gente qua in piazza aveva cambiato idea e sono stato costretto anch’io ad adeguarmi. Non mi va di perdere clienti così».
Poca collaborazione tra gli esercenti: ognuno ha fatto il suo gioco. Più l’attività è piccola e minore è il consenso all’agitazione: «Abbiamo una clientela abituale. Hanno pagato sempre con i ticket da quando sono entrati qui per la prima volta», spiega il proprietario del caffè Hardy Quì, di via Orefici.
C’è anche chi ieri non ha aderito, ma non esclude di farlo nei prossimi giorni, come afferma il titolare del Bar Duomo: «Oggi li ho presi, ma da domani in poi non so come mi regolerò». Per molti ha giocato la «paura della schiscetta», il pranzo portato da casa. Dicono al bar Garden in corso di Porta Vittoria: «Abbiamo preparato meno panini e piadine perché senza i ticket la gente si mangia il panino preparato a casa. Da noi oggi calo del 40 per cento di clienti».
Il gestore del «Petit Bistrot» di via Puccini cerca di prenderla con filosofia: «Cosa ci vuoi fare? Ormai il ticket è diventato utile per ogni occasione. Andare al supermercato, comprarsi le scarpe: io l’avevo immaginato come mezzo di sostituzione delle mense. Per ora sono costretto ad accettarli, ma controvoglia. Io, poi, che di queste faccende mi sono già occupato in passato, proporrei un unico tagliando per il centro».
Una situazione paradossale è quella che riguarda i fast-food: Mc Donald’s, promotore dell’intera protesta indetta da poco più di una settimana, lascia parlare i cartelli ben esposti all’esterno dei suoi locali. «Pasti buoni sì, buoni pasto no»: uno slogan che lascia poco spazio all’immaginazione. Di diverso avviso Burger King e Spizzico: entrambi non hanno voluto uniformarsi al diktat del concorrente.
Al Caffè Dante, in zona Cairoli, un cartello dell’Epam che non evita polemiche: «Il buono pasto in tuo possesso rischia di diventare carta straccia se il settore non sarà regolamentato in maniera diversa e più equa».


Un foglio che spiega anche ai «profani» il nocciolo della questione: il problema ricade sul datore di lavoro, pubblico o privato, che paga il ticket in suo possesso molto più del suo valore nominale, creando così un circolo vizioso per il quale le commissioni risultano estremamente onerose.
Alla fine però, tanto idealismo è andato in fumo: solo un quarto degli esercenti del centro ha aderito alla serrata, con la paura che il vicino potesse fargli le scarpe.

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