Letteratura

Bussi ritrova Saint-Exupéry cercando il Piccolo Principe

L'autore mette in parallelo le loro esistenze e scomparse misteriose in un giallo letterario

Bussi ritrova Saint-Exupéry cercando il Piccolo Principe

Codice 612. Chi ha ucciso il Piccolo Principe? (Edizioni e/o, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pagg. 184, euro 17) è un giallo letterario e insieme un divertissement colto che Michel Bussi ha costruito intorno al libro più famoso di Antoine de Saint-Exupéry e alla morte di questi, precipitato in mare nel 1944 durante un volo militare di ricognizione. Come è noto, la carcassa arrugginita del suo aereo venne ripescata solo sessant'anni dopo, un po' come in quel romanzo il corpo del Piccolo Principe svaniva lasciando al suo posto «una vecchia scorza abbandonata». «Sembrerò morto e non sarà vero» diceva il protagonista di quel libro e la stessa cosa si può dire poeticamente del suo autore.

Questa specie di parallelismo e/o di similitudine fra le due esistenze, una di carta, l'altra reale, è l'idea guida dell'indagine di Bussi, una controinchiesta, se si vuole, con tanto di indizi, false piste, testimonianze contraddittorie, possibili moventi e possibili colpevoli. In essa gli asteroidi della favola di Saint-Exupéry diventano delle isole, il volo degli uccelli selvatici usato come mezzo di trasporto lascia il posto a un aereo, ma «i testimoni sono gli stessi, assurdi e commoventi». Ci sono due investigatori, la giovane detective alle prime armi Andie e Neven, un nome palindromo che è un ex aviatore e un meccanico di aeroplani; c'è un club occulto, il Club 612, i cui membri raccolgono da anni ogni traccia che aiuti a svelare l'enigma di quella duplice scomparsa, e ci sono persino la volpe, il serpente e la rosa, il regno dell'uomo d'affari e quello del bevitore o del lampionaio... Soprattutto, Bussi ci regala il suggerimento di tornare a leggere un racconto senza tempo e che, invecchiando come lettori, si tende colpevolmente a dimenticare, anche perché, nella sua essenza, Il Piccolo Principe non è tanto lo stucchevole invito a riscoprire il bambino che è in noi, ma il prendere atto che non esiste grandezza, d'arte come di destino, senza una parte d'infanzia, ovvero la capacità di mantenere intatte, pur nel passare del tempo, passioni e idealità che di essa fecero parte.

Ciò che rende ancora più interessante la ricostruzione romanzesca di Bussi, sta nel fatto che Il Piccolo Principe segna, se si vuole, una scissione con ciò che Saint-Exupéry era stato prima della sua uscita, avvenuta, lo ricordiamo, negli Stati Uniti nel 1943, ma in Francia solo nel 1946, ovvero due anni dopo la sua sparizione in mare.

In quell'arco di tempo si attenua, fino quasi a scomparire, l'aristocratico cantore del cameratismo e della vita come dovere e come missione; l'avventuriero tutto fremiti e impulsi ideali, sprezzatore dei bisogni e dei desideri materiali di massa; l'intellettuale fedele alle amicizie di là dalle differenti scelte ideologiche; il teorico di una democrazia elitaria, di un governo dei migliori che nel superamento degli ismi del suo tempo (comunismo, fascismo, capitalismo) indicasse scopi, mete e valori alla Francia e ai francesi.

Una simile visione del mondo andava contro lo spirito del tempo che dopo la sua morte aveva preso a soffiare: parlarne avrebbe significato rimettere in discussione le certezze di chi aveva vinto; rivedere giudizi e esecuzioni sommarie, culturali e fisiche; riconoscere dignità di pensiero a chi aveva cercato una propria strada infischiandosene degli appelli unitari a senso unico. Saint-Exupéry non aveva aderito al fascismo, ma nemmeno al comunismo, non era andato con Pétain, ma nemmeno con de Gaulle, non aveva mai demonizzato i suoi avversari e aveva sempre difeso i suoi amici. Aveva combattuto, e era morto, per tener fede a una certa idea del suo Paese e di sé stesso. Non era etichettabile, insomma, e quindi era inservibile. Meglio ridurlo a scrittore di fiabe, un po' guascone e un po' pasticcione, un ragazzone idealista con la testa sempre fra le nuvole. E questo è proprio ciò che avvenne.

Questa reductio ad unum non avvenne solo sul campo letterario, andò a incidere anche su quello più propriamente biografico, complici in questo senso sia una delle sue ultime amanti, Nelly de Vogüé, che fu anche il suo primo biografo, sotto lo pseudonimo Pierre Chevrier, e il cui archivio è secretato sino al 2053, sia la sua stessa famiglia. Emblematica, in questa opera di riscrittura, è stata l'eliminazione, durata quasi mezzo secolo, della figura di Consuelo, che fu la sua unica moglie, nonché dei rispettivi tradimenti, per la verità più di lui che di lei, e le successive riconciliazioni, emblema della possibilità di una libertà totale e al tempo stesso di un legame indistruttibile, a volte amaro e altre volte crudele, proprio di due persone in carne e ossa, non di due simboli, uno positivo, l'altro negativo, e straordinariamente moderno, antiborghese. Come scriverà Consuelo alla madre di Antoine: «Credete che vostro figlio sarebbe contento di sapere che negli ultimi quattro libri pubblicati su di lui sia stato sminuito o nascosto che fosse sposato, che mi ha amato, che ha vinto tutte le tentazioni, che ha scritto per me una preghiera?».

La preghiera per Consuelo dice: «Signore, fatemi sempre simile a quella che mio marito sa leggere in me. Signore, signore, salvate mio marito perché mi ama veramente e senza di lui sarei orfana, ma fate, Signore, che egli muoia per primo, perché, sì, ha un'aria solida, ma si angoscia troppo quando non mi sente fare chiasso per casa. Signore, innanzitutto risparmiategli l'angoscia. Aiutatemi a essere fedele e a non vedere quelli che lui disprezza e quelli che lo odiano. Questo gli porta sfortuna, perché ha fatto la sua vita in me. Proteggete, Signore, la nostra casa. Amen». Antoine gliela inviò nel gennaio '44, con su scritto «preghiera che deve dire ogni sera Consuelo». Quattro mesi dopo se ne andò per primo lui, come sapeva sarebbe successo, come sperava sarebbe successo.

Alcune notazioni di Bussi sul Piccolo Principe meritano una considerazione particolare. La forza del racconto, scrive, consiste nel fatto che «ognuno troverà quello che è andato a cercarci. È un libro di conforto, intimo, che aiuta a riempire il vuoto dato dall'assenza, la solitudine, la morte»... Allo stesso tempo però «è anche un elogio del diritto alla fuga e al ripiegamento in sé stessi. Come quelle illusioni ottiche in cui l'occhio può vedere due disegni diversi in una sola immagine, il racconto potrà essere letto sia come un'esortazione alla responsabilità che come un inno alla libertà. È in questa contraddizione, così risoluta, che Saint-Exupéry ha vissuto ed è scomparso. È così che io l'ho letto... È così che l'ho immaginato».

L'anno in cui il Piccolo Principe finì in fondo al mare, Saint-Exupéry era un gigante stanco, sorridente eppure pensieroso, l'espressione di chi si stupisce d'esserci ancora e sembra chiedersi per quanto tempo e quando e come sarà il suo non esserci più, ma senza ansia, con rassegnata curiosità. Nato nel 1900, lui e l'aviazione erano in fondo coetanei, e tali rimasero fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Poi lo sforzo bellico mise le ali all'aeronautica e trasformò lui in un vecchio superato dal tempo, nuove strumentazioni e nuove tecniche, una salute malandata che fece delle sue ultime missioni un calvario fisico: aveva bisogno di aiuto anche solo per entrare e uscire dalla cabina di pilotaggio... Dopo aver letto il manoscritto del Piccolo Principe, un amico gli aveva detto: «Sei un extraterrestre». «Sì, è vero» era stata la risposta: «Talvolta faccio quattro passi fra le stelle».

Il 31 luglio del 1944 per andare in cielo bisognava volare sott'acqua.

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