Un supereroe si aggira nella cucina italiana. Vuole salvare il mondo a colpi di pala, anche se è mingherlino e ha gli occhiali da secchione (oggi si direbbe: da nero). Il suo nome è riconoscibile in tutto il mondo ed è: Pizzaman.
Pizzaman accorre ovunque serva una pizza fatta con amore. Il suo alias è Gino Sorbillo, il pizzaiolo più famoso di Napoli e quindi d'Italia e quindi d'Europa e quindi della Terra (pare che su Marte qualcuno faccia un'ottima quattro formaggi). Che ha scritto il suo primo libro autobiografico, uscito in questi giorni per i tipi di Dissapore e lo ha chiamato appunto così: Pizzaman.
Questo articolo è frutto dell'avvincente lettura del libro, onesto e spietato come poche volte capita ai libri degli chef, e di una divertente chiacchierata fatto con Sorbillo. Che ci ha raccontato che cos'è la pizza per lui (più o meno tutto), che cosa voglia dire riscrivere la storia del piatto più famoso al mondo partendo dal suo tempio, quella via dei Tribunali a Napoli che dal 1935 ospita il locale di famiglia e che con gli anni è diventata la vera Pizzopoli del mondo, che cosa si può fare ancora.
Prima di tutto qualche rudimento. Secondo Gino - e non solo secondo lui - esistono varie tipologie di pizza anche nella stessa Napoli. Lui si ritiene un profeta in particolare di quella cosiddetta «a ruota di carro», per via «delle sue dimensioni importanti» che la portano a traboccare dal piatto. Motivo che la rende più popolare e volgare rispetto ad altre tipologie, ma un alimento generoso «che deve sfamare tutti, a partire da studenti, pensionati e disoccupati, che rimangono i clienti più numerosi della mia pizzeria in via dei Tribunali. La nostra pizza straborda dal piatto ed è forse eccessiva per i tempi in cui viviamo: contiene 120 grammi di fiordilatte e altrettanti di pomodoro, invece dei canonici ottanta. La pagnotta pesa 300 grammi invece che 250». Ecco Pizzaman nella veste di ridistributore sociale. Dà ai poveri senza togliere ai ricchi.
Dice Gino che anni fa lui si avviliva pensando alla pizza. Secondo lui il vero medioevo del disco di pasta sono stati gli anni Ottanta, quando «si facevano sempre le stesse sei o sette pizze» e quando i pizzaioli scrivevano pizzeria-ristorante e poi solo ristorante perché ritenevano la pizza una ristorazione di serie B. «Vedere che la pizza si allontanava dalle pizzerie mi dava un dolore. Vedere che la gente della Napoli bene snobbava la pizza tradizionale mi deludeva. Tutto questo ha fatto scattare in me una scintilla di rabbia e mi ha fatto diventare il Gino Sorbillo che rompe gli schemi». E un po' anche le scatole.
La rinascita della pizza nell'ultimo decennio è frutto di curiosità, lavoro, profanazione di alcuni luoghi comuni sulla pizza. Tipo-1: «Che la pizza si possa far bene solo con l'acqua di Napoli. Una sciocchezza». Tipo-2: «Che la pizza la possa far bene solo un napoletano e che anzi ogni napoletano sia quasi condannato a fare una piazza buona». Tipo-3: «Che non si possa fare una buona pizza in un forno a gas o elettrico. Io presto aprirò a Milano una pizzeria gourmet con forno elettrico. Che scandalo per i benpensanti». Per Gino Napoli resta il lievito madre della grande pizza del mondo, ma poi bisogna avvicinare le diverse cultura. Per questo Gino gira il mondo da vero apostolo, per questo ha rieducato Milano aprendo uno spin off della sua pizzeria ai Tribunali in Corsia dei Servi (zona San Babila), una friggitoria provocatoriamente collocata a due passi da Luini, un'altra pizzeria in via Montevideo.
Ma il cuore resta a Napoli.
Città di cui Gino ha vissuto da ragazzino anche il lato gomorresco («Certe volte mio padre mi diceva: c'è brutta gente, vattenne») ma da dove non andrà mai via. Senza piangersi addosso. Perché piangere non è cosa da supereroe. Non è cosa da Pizzaman.
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