La tortura più comune era quella del cavalletto. La sventurata di turno, accusata di essere una strega soltanto perché detestata da qualcuno, veniva denudata e fissata mani e piedi da robuste corde ad una struttura di legno semicircolare, attraversata da pioli. La vittima era posta a pancia in giù, in modo da offrire la schiena al suo carnefice, e il marchingegno veniva sistemato a circa 90 centimetri da terra. A quel punto iniziava l'interrogatorio. Se le risposte della donna non erano soddisfacenti, come accadeva nella quasi totalità dei casi, i torturatori azionavano delle leve che tiravano le corde, provocando stiramenti e slogature. C'era una variante. In questo caso la vittima era legata con funi sottili, ma resistenti, tra le quali veniva inserito un paletto. Così, quando il boia le stringeva, le corde penetravano nelle carni fino all'osso. Ma la cosa che più fa rivoltare è che queste atroci torture fossero accompagnate dalle preghiere del sacerdote che le ordinava.
È in questo modo, a cominciare dall'estate del 1587, che un clima di indicibile terrore venne imposto nel paese di Triora, piccolo borgo montanaro dell'entroterra di Imperia, dove venne svolto un processo la cui memoria sarebbe rimasta nei secoli come sinonimo di crudeltà e malvagità.
A raccontare come andarono le cose, effettuando un'inchiesta che abbraccia passato e presente, esaminando tutti i possibili aspetti della società dell'epoca, ma anche le attuali caratteristiche del posto, sono gli studiosi Maria Antonietta Breda, Ippolito Edmondo Ferrario e Gianluca Padovan che hanno pubblicato per i tipi di Mursia «I segreti di Triora - Il potere del luogo, le streghe e l'ombra del boia».
Ognuno dei tre autori sviluppa diversi aspetti del comune tema trattato. A parte alcune opinioni personali molto discutibili, il volume è ben articolato. Leggiamo dunque gli aspetti insoliti del paese, le mappe storiche dei territori di frontiera, le fortificazioni di Triora, l'indagine storico-esoterica delle aree cimiteriali e così via.
Ciò che prende di più il lettore è però il capitolo che parla del famoso processo. Le cause che portarono alla «caccia alle streghe», nel senso letterale del termine, sono da ricercarsi in una terribile carestia che ridusse alla fame l'abitato del borgo, da tempo dominato dalla Repubblica di Genova. La popolazione non riusciva più a trovare cibo, soprattutto per la mancanza di materie prime. O meglio, i vettovagliamenti non mancavano, ma costavano carissimi. Insomma, la carestia era artificiale. Come è stato accertato da studi recenti e dalla documentazione presente nell'Archivio di Stato di Genova, a provocarla erano stati i proprietari terrieri che detenevano il potere intrattenendo rapporti diretti con il governo della Superba. Ad un certo punto, per aumentare i profitti, pare che avessero fatto un «cartello» alzando a dismisura il costo del grano e di tantissimi altri alimenti. Sarebbe il caso di dire «nulla di nuovo sotto il sole». Fatto sta, che questa criminale strategia economica non poteva essere sopportata dalla stragrande maggioranza della popolazione che, non avendo denaro a sufficienza, cominciò letteralmente a morire di fame. E i primi a subirne le conseguenze furono i più deboli, cioè i bambini, che cominciarono a morire come mosche. Invece di analizzare le cause del disastro, il parlamento locale di Triora (oggi lo chiameremmo consiglio comunale), organizzò una bella assemblea pubblica nella piazza antistante la chiesa della Colleggiata e, tra gli applausi dei presenti, invocò l'intervento delle autorità civili e religiose per perseguire le streghe, considerate la vera causa della carestia e della mortalità dei bambini. Fu l'inizio dell'inferno. Stefano Carrega, podestà in carica, stanziò subito 500 scudi e inviò richiesta ufficiale in quel senso sia a Genova, sia alla Diocesi di Albenga. Dopo pochi giorni, a Triora giungevano il vicario dell'inquisizione della Repubblica di Genova e il vicario dell'inquisitore di Albenga, il sacerdote Girolamo del Pozzo. Fu quest'ultimo che diede il via all'iter processuale con una Messa celebrata proprio nella chiesa della Collegiata. E, come era costume dei tempi, durante la predica invitò tutti i presenti a collaborare con lui per trovare le presunte streghe. In altre parole, invitò i parrocchiani a svolgere quella che da sempre è una delle più meschine tra le attività umane: la delazione. Figurarsi: a ognuno veniva data la possibilità di denunciare colei che più disprezzava, invidiava o verso la quale nutriva gelosia. Inoltre, non era necessario fornire alcuna prova. Così, in un battibaleno, trenta donne di Triora finirono in carcere. Secondo l'usanza dell'epoca, per stabilire se una persona fosse innocente o colpevole, doveva passare dalla tortura del cavalletto. Per cui, pur di non soffrire le crudeli pene delle corde, tredici donne, quattro ragazze e persino un bambino si dichiararono rei confessi. E ci furono le prime morti. Isotta Stella, di antica e nobile famiglia di Triora, morì per le torture subite. Un'altra, cercando di fuggire dalla prigione, cadde dalla finestra e morì sul colpo.
Il fatto, però, che a essere incarcerate fossero anche tante donne della piccola nobiltà locale (cioè le più invidiate), cominciò a preoccupare il locale Consiglio degli Anziani che, in data 13 gennaio 1588, scrisse a Genova sollecitando maggiore attenzione nei giudizi. Per farla breve, Genova rispose chiedendo spiegazioni al vescovo di Albenga, monsignor Luca Fieschi, tanto più che tra le streghe ree confesse c'erano tre bambine di tredici, undici e nove anni. Si arrivò così alla sostituzione dei due inquisitori con il commissario straordinario Giulio Scribani, magistrato del governo genovese, che nel giro di pochi giorni accentuò ancora di più il clima di terrore a Triora. L'8 luglio del 1588 questo signore, che nell'intimo doveva provare una forte attitudine al sadismo e alla violenza, scrisse al Doge di essere giunto a Triora: «Per smorbar di quella diabolica setta questo paese che resta quasi per tal conto tutto desolato».
E, tanto per far vedere che non scherzava, inviò in catene a Genova, via nave, tredici donne e un uomo. Scribani, il cui nome dovrebbe essere inciso da qualche parte affinché i posteri ne conservino il diabolico ricordo, arrivò al punto da mettere sul cavalletto una donna, tale Caterina moglie di Marco Cappone Bosio, accusandola di possedere un unguento diabolico. La povera disgraziata, sotto tortura, confessò non solo di possederlo, ma anche di aver assassinato tre dei suoi figli e di aver avuto rapporti carnali con il demonio.
Non continuo oltre per non rovinare il piacere della lettura a chi vorrà intraprenderla. Certamente, comunque, ciò che leggerà non gli permetterà di dimenticare facilmente questo libro.
«I segreti di Triora - Il potere del luogo, le streghe e l'ombra del boia» di Maria Antonietta Breda, Ippolito Edmondo Ferrario e Gianluca Padovan. Mursia Editore, 480 pagine, 24 Euro.
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