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Charles Lindbergh, un'elica sopra l’Atlantico

Nel 1927 l’aviatore di origini svedesi raccolse la sfida lanciata dall’imprenditore Raymond Orteig: da New York a Parigi senza scalo

Charles Lindbergh, un’elica sopra l’Atlantico

A pensarci bene l’impresa non è così peregrina. Lui l’ha accolto nel suo hotel conficcato nel bel mezzo del Greenwich Village per esporgliela. Si erano già visti altre volte, ma adesso si tratta di stringere. Lì, nella lower Manhattan, luccicano gli abiti dei newyorchesi bene, abbinati a qualche faccia da smargiasso. E, in fondo, una bella dose di sfrontatezza devono averla in vena entrambi, per immaginare una sfida del genere. Che poi sarebbe trasvolare l’Atlantico per la prima volta in solitaria. Dalla grande mela a Parigi, con un monoelica. Venticinquemila verdoni in palio, l’equivalente del munifico premio Orteig, cognome di Raymond, il filantropo che gli siede davanti. Mai nemmeno pensata una roba del genere. Tazze di caffè fumanti. Polpastrelli che trafiggono la condensa. Charles Lindbergh accetta. Il sogno è già decollato.

Charles Lindbergh
Charles poco prima di partire

Un pazzo volante

Del resto il nostro, origini svedesi e certificato di nascita con su impresso “Detroit - 4 febbraio 1902” non è esattamente la persona più misurata del mondo. I compagni di aeronautica, per dirne una, gli hanno appiccicato un soprannome aderente alla sua verve: “Pazzo volante”, lo chiamano. Piroette, passaggi a raso, ribaltamenti. Certo, ma questa è tutta un’altra cosa. Lui però fa spallucce. Non sbadiglia, ma poco ci manca. Supponenza o incoscienza? Magari nessuna delle due.

Lo Spirit of Saint Louis

Se Charles sprizza sicumera da ogni poro un altro motivo c’è. Il suo destriero volante gli trasmette sentimenti confortanti. Faccenda di clangori californiani. L’ha costruito la Ryan Airlines. Giunture metalliche indefettibili e motore da 240 cavalli di potenza ad alimentare l’unica elica. Un monoplano ad ala alta, a tutti gli effetti. Il nome è evocativo: Spirit of Saint Louis. E oggi, che è il 20 maggio 1927, Lindbergh ci si infila dentro senza indugio, per iniziare un lento rullaggio sulla pista dell’aeroporto Roosvelt Field, qualche manciata di chilometri da New York City.

Spirit of Saint Louis
Lo Spirit custodito oggi al National Air and Space Museum

Un’impresa temeraria

Va bene tutto, d’accordo, ma la sfida resta potenzialmente intrisa di uno spiacevole retrogusto kamikaze. Da solo per tutto quelle miglia. Con un solo motore a disposizione. Senza scalo. Senza riposo. Con condizioni meteo che possono sbriciolare ogni convinzione pregressa nel tempo di un amen. Appare oggettivamente più una scommessa col destino che un tentativo lucido. Gesti apotropaici in sequenza nell’abitacolo. Menagrami e allibratori da tutto il mondo si attaccano alla radio. Portatori di iattura e dispensatori di buona sorte. Charles non si lascia distrarre, ma sa che un singolo tentennamento può equivalere alla morte.

Lindbergh riscrive la storia

Sono le 7,52 in punto del 20 maggio 1927 quando il monoplano si stacca dal suolo americano, per iniziare a fendere le nubi. Mezzo mondo trattiene il fiato. I più tesi sono ovviamente gli statunitensi e i francesi, ma ogni casa in grado di sintonizzarsi sulla stazione giusta è pervasa da una curiosità malandrina. La trasvolata è lunghissima: 33 ore e mezza. Charles si fa sentire in radio di quando in quando, mentre solca a debita distanza quei flutti tumultuosi. Il meteo regge. L’apparecchiatura non fa cilecca. La sera del 21 maggio 1927 lo Spirit of Saint Louis appare come un’incisione miracolosa nei cieli parigini. Atterra sulla pista dello Champs Bourget alle 22,54. Il mondo intero esulta. Orteig si fruga volentieri. Lui alza la mano in segno di vittoria. Onorificenze dalla Casa Bianca, Legion d’Onore dalla Francia. Un Pulitzer per la sua biografia e la copertina di uomo dell’anno sul Time.

A volte bisogna essere pazzi per volare oltre i recinti del destino.

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