C’è un giorno, inciso nel cuore della primavera del 1989, in cui l’Inter smette di inseguire e piazza i gomiti in cima alla piramide del calcio italiano. È il 28 maggio, stadio di San Siro, penultima giornata di campionato. Da una parte Diego Armando Maradona, campione d’Italia uscente, signore di un calcio vissuto come fede e rivolta ai dogmi, perché sa come piegare le leggi della fisica al suo volere. Dall’altra, l’Inter di Giovanni Trapattoni, un’armata che non concede tregua. Scintillano i nomi di Brehme, Ramon Diaz, Serena, ma soprattutto il suo, quello di Lothar Matthäus, il generale che guida tutti quanti con classe e impeto furenti.
Quella stagione l’Inter è quanto di più simile a un blocco di granito che avanza. Un ecosistema calcistico inappuntabile: Zenga para tutto, Bergomi e Ferri chiudono ogni pertugio, Berti corre come se non dovesse mai fermarsi. E in mezzo, Matthäus governa. Dettando il tempo, la misura, il ritmo della contesa. Trapattoni lo ha preteso come l’uomo delle grandi battaglie, quello che deve cambiare il passo di una squadra stanca di lambire soltanto la gloria.
A Milano si decide tutto. Lo stadio è un vulcano che ribolle. Maradona, con la sua dieci eterna, difende l’orgoglio del Sud. Non vuole che lo scudetto cambi padrone proprio davanti ai suoi occhi. Gli azzurri partono forte: segna Careca, uno dei simboli della stagione precedente, e lo stadio trema di felicità. L’Inter vacilla per qualche istante, ma non crolla. È una squadra che conosce la fatica e non ne ha paura. Stringe i denti, si compatta, riparte. E con un lampo di Serena trova il pareggio. È il segno che la partita non è finita, che qualcosa sta per succedere.
Infatti nella ripresa si materializza la scena madre. Punizione dai venti metri, posizione centrale. Matthäus si avvicina al pallone con l’aria di chi ha deciso che tocca a lui scrivere il finale. Assesta la palla con calma geometrica. Si allontana di tre passi. Attorno a lui, il brusio di San Siro si diluisce in lecito timore. Giuliani in porta, la barriera allineata. Maradona poco distante, immobile, come se stesse aspettando una rivelazione inopportuna.
Il tedesco parte. Il destro è un colpo di martello: il pallone sfreccia, è un bolide che quasi accarezza il palo alla destra di Giuliani, che si tuffa ma non riesce a tenerlo. Rete. Silenzio per un istante, poi il boato degli interisti infrange la cappa d’aria calda. È il gol del 2-1, quello che decide la partita e, di fatto, lo scudetto. L’Inter è campione d’Italia per la tredicesima volta nella sua storia.
Matthäus corre sotto la curva neroazzurra, il pugno chiuso, il volto di pietra. Non sorride. È un urlo silenzioso, un grido interiore. Quel tiro, quella parabola perfetta, è il sigillo di un dominio costruito giorno dopo giorno, campo dopo campo. Maradona lo guarda e capisce: ha perso contro un altro genio, diverso, glaciale, ma comunque eccelso.
Il resto è pura celebrazione. L’Inter chiuderà a 58 punti, un record per l’epoca, con 19 vittorie su 19 in casa e una sola sconfitta. Una marcia trionfale, e al centro di tutto sempre lui, Lothar Matthäus, che pochi mesi dopo alzerà il Pallone d’Oro. Ma quel pomeriggio di maggio, mentre il sole cala su San Siro e il vento si porta via l’eco del suo destro, sa bene di aver già vinto la partita dell’eternità.
Perché in quel gol c’è tutto: la potenza, la volontà, la pressante solitudine del campione. E la consapevolezza che, anche davanti a Maradona, quel giorno il calcio doveva avere un padrone soltanto.