Parlare di eutanasia, del caso Welby e del dibattito suscitato dallultima uscita del cardinale Martini, con lui significa fare sul serio. Alessandro Maggiolini, 76 anni, vescovo uscente di Como - domenica prossima è previsto lingresso del suo successore, Diego Coletti - è una delle maggiori personalità dellepiscopato del nostro Paese, unico italiano nella commissione internazionale che ha redatto il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica sotto la guida dellallora cardinale Jospeh Ratzinger. Da qualche anno ormai, Maggiolini non è più soltanto il prelato «controcorrente», poco amante del felpato e autoreferenziale linguaggio «ecclesialese», il vescovo che con largo anticipo su tutti ha denunciato i rischi di unimmigrazione selvaggia, lecclesiastico schietto e mai banale che ha scritto un libro per annunciare la fine della cristianità così come labbiamo concepita e vissuta fino a oggi. Da qualche anno, a causa di un cancro al polmone e poi del morbo di Parkinson che lha praticamente immobilizzato in carrozzella, Maggiolini è un credente che fa quotidianamente i conti con la sofferenza. Un paziente di riguardo, che non nasconde la sua paura della morte e che trascorre ogni santo giorno quattro ore in confessionale, a incontrare i fedeli. «Tra persone che soffrono, basta unocchiata per intendersi», sussurra con un filo di voce vescovo inchiodato alla carrozzina dallo stesso morbo che ha colpito Giovanni Paolo II e che affligge lo stesso cardinale Martini.
Che cosa pensa dellarticolo del cardinale sul caso Welby?
«Penso, in tutta sincerità, che un cardinale dovrebbe tacere oppure, se ha qualcosa da dire o da dissentire su certi argomenti, debba scrivere direttamente al Papa in modo riservato e personale, senza esporsi in una maniera pubblica. In fondo, il cardinalato non è un cavalierato, un titolo onorifico, ma il segno di una obbedienza particolarissima al Santo padre, fino al martirio. Ora, nessuno chiede di effondere il sangue, ma di tenerlo da conto sì».
Che cosa obietta, nel merito, a Martini?
«Premetto di aver detto, a suo tempo, che io i funerali religiosi a Welby li avrei celebrati. Ho letto sui giornali che questuomo, negli ultimi istanti di vita, ha pregato. Se ciò è avvenuto, se davvero alla fine si è affidato a Dio, bisogna tener conto del fatto che basta un sospiro di richiesta di misericordia per riscattare una vita intera. Il cardinale Martini, però, non tocca questo argomento, non parla di questa revisione morale della vita, ma entra nel merito della sospensione dei trattamenti che il malato non sopporta più o che provocano dolore... ».
Il dolore e il suo riverbero psicologico non sono elementi secondari.
«Il problema del dolore, attualmente, nella quasi totalità dei casi, è risolto grazie alluso di potenti analgesici e anestetici che lo eliminano pur provocando spesso la perdita della coscienza del malato. Il problema, semmai, è proprio quello della persistenza della coscienza. Tanto che la Chiesa consiglia il paziente che sta per essere sottoposto a queste cure palliative, di mettere a posto prima le ultime volontà».
La sofferenza non più accettata non può essere un motivo per rifiutare le cure?
«La sofferenza, quando cè, non è un motivo per smettere le cure. Semmai è un motivo per spingere ad aumentare le cure per far soffrire il meno possibile. Non riesco a capire che cosa significhi sospendere le cure e così permettere che uno muoia».
Martini ha parlato di eutanasia come di «un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte». E ha aperto alla sospensione delle cure, come prevede la legge francese.
«La differenza tra eutanasia cosiddetta attiva e quella passiva esiste già da almeno ottantanni, non è una notizia da prima pagina. Si è sempre detto che un conto è ammazzare e un conto e lasciare che uno muoia. Dunque non mi sembra poi una gran scoperta. Il problema è che su questi argomenti così delicati, che ci toccano così da vicino e così nellintimo, non si può discutere sulla base di formule teologiche astratte ma è necessario un confronto tra il teologo moralista - non il biblista - e il medico, cioè colui che sa che cosa sta capitando davvero nellorganismo di una persona».
Eppure la Chiesa, come dice no alleutanasia, è altrettanto contraria allaccanimento terapeutico. Come lo definirebbe, lei, questo «accanimento»?
«Laccanimento inizia quando cure straordinarie e sproporzionate non garantiscono più speranza di miglioramento e la morte è comunque sicura. Vorrei però aggiungere che una cosa è sospendere la somministrazione di medicinali atti a contrastare il male, unaltra togliere al paziente le risorse per vivere. Per esempio, essendo laria è necessaria per vivere, non credo sia lecito toglierla staccando il respiratore. Il cibo così come lidratazione non possono essere considerate cure».
Martini invoca un maggior coinvolgimento e un maggior protagonismo del malato.
«Non ci si deve però dimenticare che il responsabile è il medico. Il malato non è lultima istanza, deve confrontarsi con il medico che lo cura, sennò rischia di scambiare una fitta passeggera con un tumore. Il medico, insomma, non può essere deresponsabilizzato. Altrimenti si arriva a concedere il permesso di ammazzarsi nelle corsie degli ospedali».
Posso chiederle come sta vivendo la sua malattia?
«Sono lontanissimo dalle sviolinature circa limportanza del dolore e della sofferenza. Conosco la teologia, ma devo dire che non credo necessario esaltare il soffrire. Secondo me il problema è di mantenersi nellatteggiamento di dipendenza dal Signore. Se lui vuole che io abbia il Parkinson, è la sua volontà, anche se a me dà fastidio. Così non è stato piacevole il taglio di un lobo di un polmone, ma se serve a mantenermi ancora in vita, laccetto! Cè un aspetto umano, cioè il riconoscersi limitati e dopo aver cercato di allontanare il più possibile gli elementi negativi, accettare la malattia che il destino ti assegna. Ma cè anche la voce del soprannaturale che ti sussurra che quella è la volontà del Signore».
Questo abbandono, questo atteggiamento di dipendenza, aiuta a vivere la sofferenza?
«Il primo risultato pratico è che ti costringe a non fare il gradasso, e non sgomitare per esibirti. Ti costringe a essere malato, il che vuol dire accettare un certo nascondimento e la compassione degli altri, che non è mica sempre bella. Poi ti aiuta a capire la redenzione di Cristo, che ha scelto volontariamente di salire sulla croce.
«Caro Martini, solo Dio può darci la morte»
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