Poteva anche capitare, nel corso di una storia, che gli occhi del protagonista cambiassero da neri a celesti, che un personaggio dato per defunto inopinatamente risorgesse o che lassassino con una mano afferrasse alla gola la sua vittima e con laltra - chissà come... - le sputasse in viso. Per dire che la qualità della scrittura e lattenzione ai particolari non erano una priorità, almeno rispetto alla capacità di coinvolgimento della trama.
Per il resto, i libri di Carolina Invernizio (le cui capacità affabulatorie iniziano con la stessa data di nascita: gli atti comunali di Voghera testimoniano il 1851, ma lei raccontò sempre che era il 1858), avevano tutto ciò che serviva a farsi leggere da generazioni di fanciulle e donne di ogni ceto e classe sociale (e di nascosto anche a molti uomini, per la verità): drammi domestici a tinte forti, amori, gelosie, assassini, suicidi, pazzi, cattivi (di solito sempre milanesi... ), rocambolesche agnizioni, «candide nefandezze e timorate perversioni», colpi di scena tanto fulminanti quanto inverosimili, e - ingrediente irrinunciabile - una leggera ma saporita dose di sesso.
Scrittrice col passo del feuilleton e il gusto latinoamericano del racconto, la Madamin che fece fremere lItalia umbertina segnò la via popolare alla narrativa di genere seguendo ispirazioni che la portavano a percorrere ora la strada del romanzo storico ora del giallo dazione piuttosto che del thriller orrorifico o del dramma damore. In quarantanni di domestica carriera, Carolina Maria Margaritta Invernizio da Voghera (stessa patria della famigerata casalinga arbasiniana a cui, profeticamente, i suoi libri si rivolgevano) scrisse 150 tra romanzi e racconti che tra la fine dellOttocento e linizio del Novecento le assicurarono un successo travolgente e duro a morire viste le continue ristampe e addirittura, da parte di Einaudi, linserimento in una collana di classici (è appena uscito Il bacio di una morta nei tascabili): titoli come Odio di araba, Anime di fango, La vendetta di una pazza, La sepolta viva, Il treno della morte o Lara, lavventuriera che per il taglio gotico, il contenuto a volte scabroso e un certo impudente sberleffo al conformismo piccolo-borghese dellepoca, le valsero (onore? vergogna?) la messa allIndice da parte del Vaticano.
Nume tutelare degli sceneggiatori di soap opera e sacra icona della letteratura sartinesca e portinaia, la Invernizio fu tanto amata dai suoi lettori (e dal suo editore, Salani, che fece una fortuna con i libri della collana «I romanzi di Carolina Invernizio») quanto snobbata dai critici. La staffilata più celebre che ricevette fu da Antonio Gramsci: «Onesta gallina della letteratura popolare». Un noto critico del tempo la definì «una brava quanto modesta scrittrice... una buona donnina di casa... una buona massaia... », e un altro ironizzò su «Carolina in servizio», per la sua popolarità fra le domestiche. Poi, per un lungo periodo dopo la sua morte (1916, Cuneo), il nome della prolifica scrittrice fu o taciuto o evocato come paragone di una cattiva letteratura: «alla Invernizio», appunto. Daltra parte, era lei la prima a riconoscere i propri limiti: «Se avessi potuto studiare sarei diventata una discreta scrittrice - rispose una volta a un intervistatore deccezione, tal Guido Gozzano - ma ho fatto solo la quinta, e allora... Potevo anche diventare una brava sarta».
Forse, se fosse nata in Inghilterra o in Francia, ha fatto notare qualcuno, oggi Carolina Invernizio sarebbe una grande scrittrice. Ma nacque a Voghera, e rimase - come la bollò Gian Pietro Lucini - «una impudente scombiccheratrice di carte».
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