"Cartagloria" è un viaggio nel dolore umano verso il trascendente

Rosa Matteucci scandaglia il fascino della liturgia e della ricerca del divino

"Cartagloria" è un viaggio nel dolore umano verso il trascendente

La Cartagloria è uno strumento liturgico, una tabella posta sull'altare che recano formule in latino. Solitamente sono tre e sono posizionate una in centro e le altre sui due lati secondo un rigoroso protocollo. Servono a ricordare un testo rituale, che va pronunciato a voce bassa, quasi che le parole siano lì per essere ruminate nella bocca di chi le recita. Il contesto è quello della messa in latino, quella bandita dal Concilio Vaticano Secondo; il rito che, dal 1966 in avanti, è stato duramente combattuto dalla Chiesa e solo in tempi recenti ammessa quasi di nascosto.

Officiare la messa in latino è diventato da allora, sospetto. Chi la frequenta ha un comportamento forse ereticale, stigmatizzato come una forma di religiosità oscura e antimoderna.

Ricordo bene, negli anni della mia infanzia, le messe di Monsignor Lefebvre, il campione dei tradizionalisti cattolici. Le raccontavano al telegiornale con un misto di disprezzo e di ironia, mentre nelle immagini si vedevano i fedeli stralunati che si prostravano a terra come fossimo nel Medioevo.

Non a caso Rosa Matteucci ha intitolato così, cioé Cartagloria ( edito per i tipi di Adelphi), questo singolare e affascinante libro, che possiede una rara potenza, che mi ha fatto ridere e angosciare. L'elemento straniante di questo testo è che si tratta di una autobiografia spirituale, ma resa con mezzi letterari raffinati e talora estremi. L'autrice, infatti, parla della sua vita come di una realtà che non può avere alcun ragion d'essere che nel trascendente, ma nello stesso tempo non si tratta di un dato di fatto tranquillizzante.

Il trascendente si nega sempre, si rifiuta, abbandona chi vi si affida. Il suo libro racconta di questa dissidenza di Dio rispetto al mondo, nei confronti della sua stessa creazione, quasi un'ostilità che rende ridicoli, perciò, coloro che lo invocano e che lo cercano.

Cosa c'è di più buffo di una messa in latino? Un anacronismo che può appartenere solo a misteriosi bigotti, folli reazionari, o puri squinternati. Ma è proprio lì che Rosa Matteucci ci conduce, in quel luogo di grottesca genuflessione e ridicola prosternazione: quasi che solo chi riesce a sopportare il peso gravissimo del ridicolo possa, perciò, ridestare il trascendente. Giunto a quel punto non puoi non chiederti ma come fanno tutti questi a crederci? Il mistero, però, parte proprio da lì.

Nel capitolo più lungo e quasi terminale del suo libro, infatti, Matteucci descrive la sua complicata ricerca e infine frequentazione del rito tradizionale secondo il Vetus Ordo. Durante la messa in latino si ripristinano momentaneamente per lei alcuni meccanismi che la riportano al cospetto del trascendente. Non si tratterà di una soluzione, ma solo di uno stadio di un cammino. In questo caso la morte dell'abate che officia il rito renderà impossibile la prosecuzione di questa esperienza. Pur però traballante e assurda, l'esperienza raccontata da Matteucci non esita a esprimersi con parole di ardore, di trascinante estasi, di baluginante spiritualità.

Ma torniamo all'inizio del racconto, dove si parte dell'infanzia di Matteucci. Troviamo i suoi giochi, ed è alle prese con un padre suggestivo e dissipatore col quale ha un rapporto affettivo enigmatico. Un padre che scialacqua, distrugge ogni cosa, mente spudoratamente. Tutta la sua vita è già un disastro, presa in cataclismi familiari che minano ogni sua sicurezza. Le resta solo l'intelligenza e lo studio per cavarsela, ma di questo pare non sapersene che fare. Il centro della sua vita è un altro e non si trova nella realtà laica e immanente. Non la soddisfa nemmeno l'attività letteraria, che qui e là riduce a una semplice e momentanea occupazione, benché abbia lo stile di una delle maggiori penne della letteratura italiana contemporanea. È evidente che vuole dissiparsi e ogni volta sciupare.

Il romanzo si svolge per scene, quasi una processione. Uno sviluppo solo apparentemente lineare, dove invece spiccano alcuni acmi: il rifiuto che la protagonista subisce della Comunione, il vagheggiamento della fede orientale che termine con la bevuta di un bicchiere di urina di vacca, il pellegrinaggio a Lourdes con l'immersione in una piscina dove si trova a baciare una statuina, o, infine, il drammatico incidente, una caduta a terra, che è forse imputabile a un maleficio e che minaccia la sua dentatura e la sottopone a indicibili e imbarazzanti sofferenze.

In questo intenso susseguirsi e precipitare di scene si rivela, però, il fil rouge. Ogni racconto è uno stadio dell'esistenza, una tappa, una via crucis. Il tono pero della raffinata e fantasmagorica scrittura di Rosa Matteucci non è mai solo tragico, bensì immerso in una atroce e lancinante comicità.

Matteucci è attraversata da sentimenti gnostici, che lei stessa confessa e dichiara di non capire fino in fondo, ma che sono il motivo di una separazione tra spirito e materia che è dentro le sue pagine. Uno gnosticismo labile e senza presunzioni intellettualistiche, Non c'è astrazione, speculazione teologica, appello a cattivi demiurghi che giustifichino il mistero dell'iniquità di questo mondo e delle sue vicende temporali. Al contrario nel libro ci sono atti d'amore tenebrosi e personali verso un Dio inaccessibile nel suo volto, ma forse esperibile proprio nella sofferenza in cui tutti gli esseri umani sono gettati per via di una irrimediabile separazione dal trascendente. Dio ci ha rifiutato? La creazione è, quindi, un fallimento?

La domanda però non è contraria alla speranza, piuttosto la sostiene. Dobbiamo amare la sofferenza fin sull'orlo del baratro. Questa è la croce che dobbiamo portare per dirci cristiani: "Ma non sono sola a portare la croce che ho finalmente accettato. C'è che mi da conforto e mi sostiene".

Nelle limpide pagine finali Matteucci ci consegna la meditazione conclusiva e illuminante, che noi sappiamo ora essere la sua, quella di una vita consumata tra strazio e riso, tra lacerazione e pietà, e che si riconosce in una foto e in un affondo letterario. Alla scrittrice appare una immagine, che mostra un Cristo ligneo che viene tolto dalla croce nella chiesa armena di Leopoli per salvarlo da imminenti bombardamenti dato il conflitto russo-ucraino. Senza mezzi termini Matteucci afferma che quel Cristo è Dio, Non è un simbolo, ma la sua unica realtà, appunto vilipesa e profanata. Improvvisamente la sua mente torna a Vasilij Grossmann. Il grande scrittore racconta di aver visto la Madonna Sistina di Raffaello esposta Mosca nel 1955. Il capolavoro si trova a Dresda, ma è momentaneamente stato portato in URSS per salvarlo dai bombardamenti di dieci anni prima.

Ecco però che il ricordo va a Treblinka, in Polonia dove sempre nel 1945 Grossman era presente come giornalista. Ebbene, ecco dove aveva già visto il volto della madonna Sistina, era identico a quello di tante ragazze e al loro dolore.

Il dolore di portare la croce.

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