
Il Novecento italiano si apre davanti a noi come un mare aperto. La città, i quartieri in rovina di Mario Mafai, le terre e la vegetazione fermentante di Antonietta Raphaël, le campagne scintillanti nel moltiplicarsi degli orizzonti di Ferruccio Ferrazzi sono come strati di cenere sparsi sopra un letto di braci continuamente attizzate. Da queste folgoranti suggestioni muoverà Renato Guttuso, con un'originale sintesi di razionalismo compositivo ed espressionismo cromatico. Anche nel suo caso il paesaggio, liberato dai confini del genere, è il pretesto per una dichiarazione di fede nella tradizione classica italiana. La Sicilia di Guttuso è un luogo primitivo, dove si liberano gli istinti, le passioni. La forza della natura prevale sull'energia delle idee. Nella situazione romana qualche artista si era incaricato di applicare alla natura un metro di schematizzazione geometrica a piani intersecati di lontana matrice cézanniana e cubista: mi riferisco in particolare a Roberto Melli, a Fausto Pirandello e a Corrado Cagli.
Risalendo al Nord la situazione appare assai più disgregata negli anni fra il 1910 e il 1930. Mentre matura la solitaria e, nella sostanza, incomunicante interpretazione della natura di Giorgio Morandi, altre grandi personalità deformano in maniera personalissima le linee del paesaggio. Nella zona veneta e tridentina ogni artista, indipendentemente dai gruppi, elabora una sua particolarissima visione, al limite del più radicale individualismo. Suggestiva e problematica, soprattutto per le sue fonti, è la visione della natura del trevigiano Gino Rossi, la personalità più spregiudicata e innovativa fra i vedutisti veneti di quegli anni. Più moderato, benché di un lirismo che non teme confronti, è Umberto Moggioli, che condivide l'immagine della natura come puro idillio di Gino Rossi. Oltre i limiti di qualunque follia, di una naïveté aurorale, si pone il trentino, nordico, gotico Tullio Garbari. Come i suoi personaggi, anche i suoi paesaggi hanno qualcosa di spiritato, di allucinato, con una coscienza formale ben più coltivata di quella di un suo affine per allucinazione (benché pacato nella contemplazione della campagna padana): Antonio Ligabue.
Siamo già entrati nella sfera degli eccentrici, dei bizzarri, degli anarchici della forma. Ma il Trentino è anche il luogo dei raffinati, affiliati al secessionismo, come Luigi Bonazza. I suoi paesaggi prevedono campi lunghissimi, falciati da lame di luce, scintillanti come tessere di un mosaico. A Venezia si afferma il vedutismo rarefatto, porcellanoso, di Virgilio Guidi. Ma anche in questo caso non riscontriamo un omaggio allo spirito dei luoghi, ma una moderna riproposta dello spazio quattrocentesco, pierfranceschiano.
I pittori che più si mostrano legati e un'idea geografica del paesaggio, espressa nei modi propri di un gusto post-impressionista, restano quindi i lombardi: Arturo Tosi, Raffaele de Grada e, in una posizione a parte, il piemontese Carlo Carrà. Rispetto ai teoremi della geometria mentale di Morandi siamo, con questi artisti, nelle zone più insidiose del fenomeno. La tela è una superficie sensibilissima a ogni minima variazione meteorologica, trascolora al mutare della luminosità del giorno, assorbe la minore e la maggiore quantità di luce. Così Tosi finisce con l'essere forse il più tipico, il più classico pittore di paesaggio del nostro secolo.
Diversa è la posizione di Carlo Carrà, che muove nei primi paesaggi post-metafisici e neo-giotteschi verso esiti sempre più descrittivi. Una particolarissima sensibilità all'atmosfera, certo frutto della suggestiva lezione di Antonio Fontanesi, conduce Carrà da un'attitudine volontaristica tanto scopertamente ingenua quanto coltivatissima a una sorprendente immediatezza, a una vibrazione animistica della natura che rammemora inconsapevolmente la poetica di John Constable. Un Constable educato alla più pura tradizione italiana. Qualcosa di simile, con una minore tensione lirica e romantica, può dirsi anche della parabola, da un primitivismo di gusto quattrocentista a una posizione più scopertamente materialistica, di Alberto Salietti; e, con una anche maggiore coscienza dei valori della forma, di Raffaele de Grada. Anche quest'ultimo giunge a un più diretto confronto con la natura. La sua parabola ribaltata va da Cézanne a Corot.
Anche in Toscana quest'insostituibile convergenza di cultura e natura dà i suoi esiti in due puri pittori di paesaggio come Ardengo Soffici e Ottone Rosai. Con quel portato di letteratura subito pronto a tramutarsi in enfasi strapaesana, tipico della civiltà toscana, anche nelle sue espressioni letterarie, si può dire che Soffici e Rosai sono i corrispondenti rispettivamente di Tosi e Carrà. C'è, rispetto ai naturalisti lombardi, nei due toscani la coscienza di appartenere a una tradizione di bottega, di mestiere che si è conservato intatto da Giotto a Giovanni Fattori, un mestiere che neppure il breve intermezzo futurista è riuscito a sconvolgere. Così Rosai può attribuire alla sua Toscana, alle case e strade in collina, un carattere paradigmatico, una quintessenza dell'idea di natura. Ma chi spazza con furore anarchico gli arcaismi e i citazionismi dei due toscani è Lorenzo Viani. In lui il territorio, l'astrazione letteraria, torna a farsi luogo vero, con gli odori del mare e della terra, con la storia non della cultura, ma del lavoro dell'uomo. Dai suoi paesaggi sprigionano una tensione, una potenza, una verità che troveremo soltanto nelle composizioni a grandi blocchi di Mario Sironi. Solenne, primitiva, monumentale, la pittura di Sironi ha un fare grande, con potenti sintesi che unificano la più solitaria e ombrosa natura con le cupe e minacciose periferie urbane: identica è la materia pittorica, identico il sentimento di oppressione dell'uomo.
A fianco delle grandi tracce, incise dai Morandi, dai Rosai e dai Sironi, le esperienze pur nobili come quelle arcaiche di Sepo e sobriamente neoclassiche di Achille Funi sono puri, benché sapienti, esercizi formali. Nei territori del sogno, tra simbolismo e surrealismo, attraverso l'esperienza metafisica, si collocano le visioni della natura di Giorgio de Chirico (di cui son ben note le premesse bökliniane), di un certo Alberto Martini e di Alberto Savinio. Quest'ultimo, sviluppando il tema degli oggetti e dei mobili nella foresta, definirà un territorio del sogno, popolato di presenze quotidiane e pur misteriose, in una vegetazione esotica, che è la premessa diretta dei paesaggi lunari (ariosteschi?) di Fabrizio Clerici. Ma il frutto più bizzarro della metafisica di De Chirico, nel genere paesaggio, va indicato nel triestino Arturo Nathan.
I motivi classici, adattati al romanticismo tedesco, sono sempre da lui posti in rapporto con un orizzonte di mare sotto un cupo cielo nuvoloso, in una luce gelida e sinistra. C'è in Nathan il presentimento di una vicina apocalisse che carica di significati drammatici e allucinati gli elementi del linguaggio metafisico.