da Pechino
La Cina mostra il suo volto più duro e intollerante nel giorno delle contestazioni allaccensione della fiamma olimpica. Mentre il governo tibetano in esilio denuncia che il bilancio della repressione cinese è arrivato a 140 morti (in precedenza erano 99), il regime comunista continua a usare il pugno di ferro abbinato alloffensiva propagandistica sui media: 381 «rivoltosi» si sarebbero consegnati nella provincia del Sichuan, dove peraltro un poliziotto cinese è stato ucciso. Sui media cinesi non si parla daltro che delle «atrocità» commesse da «teppisti al servizio della cricca secessionista del Dalai Lama», il quale continua invano a ripetere che la secessione del Tibet non è il suo obiettivo. A queste notizie le fonti tibetane contrappongono le proprie: sempre nel Sichuan, ad esempio, il 16 marzo la polizia e lesercito hanno aperto il fuoco sulla folla di manifestanti uccidendo 23 persone tra cui una ragazza sedicenne. Le fonti ufficiali di Pechino continuano invece a sostenere che i morti tibetani sarebbero solo 19, mentre 18 sarebbero i civili cinesi uccisi durante la rivolta tibetana a Lhasa. Proprio ieri è stato annunciato larresto di cinque responsabili di gravi violenze anticinesi nella capitale tibetana, costate la morte di dieci cinesi: per costoro il plotone di esecuzione è sicuro.
Ieri si è inoltre avuta la notizia della condanna a cinque anni di carcere per «istigazione alla sovversione contro i poteri dello Stato» dellattivista democratico Yang Chunlin, un operaio di 52 anni arrestato nel luglio scorso per avere raccolto diecimila firme per una sua petizione intitolata «Vogliamo i diritti umani, non le Olimpiadi». La sentenza per un altro dissidente, Hu Jia, è attesa nei prossimi giorni.
Pesanti minacce vengono rivolte a mezzo stampa verso chiunque progetti di manifestare liberamente durante i Giochi Olimpici di Pechino.
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