
Esattamente 50 anni fa uscì nelle sale Amici Miei. Un successo incredibile. Un cambio nella comicità di un'intera generazione. Anzi, di quattro o cinque. Ironia forte, scorretta, travolgente: Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Duilio Del Prete, Mario Monicelli regista. E un monumentale Ugo Tognazzi.
Gianmarco Tognazzi, 58 anni, è uno dei quattro figlio di Ugo. All'epoca era un ragazzino. Attore, imprenditore, intellettuale, custode della memoria del padre.
Come nasce «Amici Miei»?
«Idea di Pietro Germi. Poi Germi, cosciente di non star bene, cede il progetto a Monicelli che trasferisce la goliardia romagnola immaginata da Germi in Toscana. Dove c'è un'ironia più cinica e scanzonata».
Nasce così la supercazzola?
«Che poi era supercazzora, ma per tutti la erre è diventata elle. Come tarapía, tapioco che diventa tapioca. C'era un gioco continuo di nomi storpiati perché il copione non era legge. E Ugo spesso veniva preso in giro».
Perché?
«Perché c'era gente, a detta anche di Monicelli, che a Firenze riusciva a tenere una persona anche venti minuti senza dire nulla ma con termini assurdi rincoglionendolo completamente. E faceva questo gioco molto meglio di quanto non abbia fatto Ugo nel film».
Ma da dove escono quelle parole diventate poi pilastri del film?
«Da un racconto di mia madre scoprii che in tre serate che fecero a casa nostra a Velletri, mangiando fino alle quattro di notte e bevendo come dannati, completamente ubriachi iniziarono a biascicare e a cambiare parole apparentemente comprensibili come brematurata che è con la bi e non con la pi, e che poi vennero scritte nel copione. I grandi successi di Ugo nascono da grandi momenti di convivialità. Successe così anche con la Grande abbuffata».
Come nacque?
«Nella cucina di Ugo. La cucina per lui era la comunità, la convivialità, il fondamento della sua attività intellettuale. Nascevano a tavola i personaggi di Ugo, le storie, le battute, i racconti. Metti che un giorno veniva a casa l'operaio degli infissi: lui lo invitava a cena, e invitava a cena anche la moglie dell'operaio e il principale. E si parlava, si rideva, e si vedevano i tic, gli aneddoti, le curiosità, le cose buffe. Cinema, vita, idee, stare assieme».
E «La grande abbuffata» che c'entra?
«C'entra con una battuta di Marco Ferreri, che amava mangiare, aveva anche una discreta stazza, e stava spesso a cena da noi. Una sera, alla settima portata, Ferreri sbotta: Ugo, tu con queste cene infinite ci farai morire. Detto fatto, scatta l'idea per il film. Ferreri parla prima con gli altri attori e poi con mio padre che si offende anche un po': A me che ti ho dato la cena lo dici per ultimo».
Cosa è per te fare l'attore?
«Fare l'attore non è più al centro della mia vita. Mi riprende un po' di passione solo quando succedono cose che mi ricordano il tempo che non c'è più. Io sono cresciuto con idee e stili di vita che sono quelli che aveva Ugo. È cambiato tutto».
Cosa è cambiato?
«È cambiato il modo in cui la gente sta insieme. Ai tempi di Ugo il nostro era un ambiente nel quale stare insieme, interagire, era la chiave della vita, del lavoro, di ogni cosa. A un certo punto tutto questo è finito».
Quando è finito?
«Già dai primi anni '90. L'avvento della tv commerciale ha cambiato tante cose, poi le hanno cambiate molti avvenimenti e novità a livello mondiale, le tecnologie, le nuove comunicazioni».
Le tecnologie sono negative?
«No, sono positive. Solo che noi riusciamo ad assorbire e fare diventare sistema non il meglio di quello che il progresso ci dà, forse il peggio».
Il cinema non è più la tua passione?
«Mio occupo soprattutto dei vini che produco, ma il cinema resta sempre la mia passione. Se tu cresci in un periodo storico nel quale l'attore è un riferimento nella società, per te il cinema resta una cosa grandiosa. Quando però il mondo degli attori, soprattutto qui in Italia, diventa la penisola dei famosi, un po' ti abbatti. In un mondo dove tutti sono famosi l'attore non vale più niente. Diventa difficile distinguere la professionalità dalla non professionalità. La visibilità dei social appiattisce ogni valore, cancella l'arte».
Cos'era il cinema quando tu eri ragazzo?
«Era un'invasione. A casa mia era un'invasione. Non c'era distinzione tra un secondo di vita e un secondo di cinema».
Tognazzi era un tipo moderno?
«Anticipava i tempi senza accorgersene. Inventò la squadra di calcio con Vianello e Pasolini, fu immaginato da quelli del Male come il capo delle Br, sdoganò l'omosessualità con quel film bellissimo che fu Il vizietto, ostentò la famiglia allargata».
Casa vostra, a Velletri, era un porto di mare?
«C'è gente che ha vissuto mesi a casa nostra».
Per esempio?
«Diego Abatantuono. Persona fantastica, grande attore».
Tognazzi era scorbutico o accogliente?
«Pupi Avati venne una volta a Torvaianica al Villaggio Tognazzi alla serata finale del torneo di calcio. Voleva incontrare Villaggio e fargli firmare un copione. Non era ancora famoso, Villaggio non glielo firmò. A fine serata chissà come mai il copione finì nella borsa di Ugo, che la mattina dopo partì per l'America. Per caso lo lesse e gli piacque, e telefonò ad Avati e gli disse: facciamolo questo film. Avati imbarazzato gli spiegò che loro non avevano una lira, era una produzione povera. Ugo gli disse che avrebbe recitato gratis. Così nacque La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone».
Per te è stato un vantaggio portare questo cognome?
«È chiaro che i vantaggi sono innegabili. Hai delle conoscenze del settore. Però il momento dopo la partenza sei attaccato su tutti i fronti. Come mettere a confronto Paolo Maldini con suo figlio Daniel».
In un bilancio generale ti ha più dato o tolto?
«Dato».
Hai copiato il modo di fare l'attore di tuo padre?
«Con Ugo i personaggi diventavano Tognazzi. A me invece diverte trasformarmi nel personaggio».
Che rapporto era il rapporto con Ugo?
«Io ho avuto un amore senza senso per lui. Che si trasformò in scontro nell'età adolescenziale. Quando poi io sono cresciuto, poco prima che lui morisse, e gli ho dato la sensazione che non ci fosse più la provocazione nei suoi confronti, siamo diventati coetanei».
Se oggi si facesse di nuovo il film «Amici miei» pioverebbero critiche di scorrettezza politica, di antifemminismo. Lui come le prenderebbe?
«Si annoierebbe».
Era un liberal?
«Ugo è sempre stato dalla parte dei radicali. Era per la libertà».
Ma era antifemminista?
«Quando si è trattato di dare un nome alla nostra tenuta in campagna decise di chiamarla La Tognazza. Ha anticipato la Boldrini di trent'anni».
Perché lo chiami Ugo e non papà?
«Lui è di tutti».